Aborto, oltre il diritto e la morale.

La sentenza con cui la Corte suprema statunitense ha di fatto cancellato l’aborto dalle libertà costituzionalmente garantite, porta riflettere, anche emotivamente, sulla validità nel tempo di talune regole giuridiche e morali, che saremmo portati a ritenere eterne.

La domanda è:  esistono norme morali e giuridiche incise sulla pietra è immutabili nel tempo?

A prima vista mi sembra di no. E vengono alla mente alcuni fenomeni recenti e antichi che mostrano non solo come alcune di esse possano non solo variare, ma addirittura contraddirsi.

Due esempi per tutti.

  • È morale e giusta la condanna a morte?

Si è (quasi) sempre ritenuto di sì. Oggi, però in gran parte del mondo sta diventando maggioritario  il concetto “Nessuno uccida Caino”. La pena capitale è altrettanto immorale e ingiusta quanto gli stessi delitti che con essa si intendono punire.

  • Analogamente in moltissimi paesi oggi prevale l’esecrazione dei comportamenti lesivi, in particolare in campo sessuale, della volontà della donna. Ma viene alla mente il ratto delle Sabine, celebrato dai romani (e mai ripudiato dalla civiltà occidentale,come impresa eroica, alla base della storia occidentale.

L’aborto, come in altre condizioni la poligamia e l’indissolubilità del matrimonio,   e in una certa misura le guerre e le pandemie, può rientrare in questa casistica? Può, cioè, essere lecito ed eticoin un dato contesto storico e reato e immorale in un altro?

Se lo guardiamo come puro strumento di demografia, non v’è dubbio che un elevato numero di nascite, soprattutto se coniugato con l’allungamento della speranza di vita e/o la sostenibilità delle condizioni di vita in dato contesto geografico, possa costituire un problema. In tale ipotesi, la “mano invisibile” che spesso sembra intervenire per ristabilire taluni perduti o mutati equilibri, può agire da stimolo o freno al numero delle nascite, anche attraverso la riduzione della fertilità e/o l’inremento delle percentuali di incompleta differenziazione dei generi. Se così fosse, e francamente non lo sappiamo, è del tutto fuorviate, tranne che nel breve periodo, parlare di aborto in termini giuridici o morali.

Mentre ci siamo immersi dentro, difficilmente riusciamo a vedere la foresta, Vediamo lo stercorario, le foglie cadute e marcescenti, i rami degli alberi, i nuovi germogli, non la foresta. Per vederla dovremmo volare alto, più in alto dell’aquila o del condor, ma anche in questo caso non ne vedremmo che un’istantanea, non l a sua evoluzione e sviluppo, e quello che può apparirci “equilibrio” potrebbe essere solo chimera.

Il nostro concetto di equilibrio, infatti, spesso è estremamente statico e incompatibile con l’evolutività della realtà. Il parametro da usare in sua vece dovrebbe essere l’efficienza in modo da  descrivere una situazione en costante evoluzione ma sempre in grado di garantire il raggiungimento dell’obiettivo assegnato dalla “mano invisibile” per garantire continuità nello sviluppo.

In quest’ottica, il fenomeno dell’aborto volontario, esclusivo della specie umana, potrebbe rientrare in una categoria diversa, né morale né giuridica. È un passaggio dell’evoluzione/conservazione della specie e per capirlo dovremmo inquadrarlo nell’ottica delle cause da cui deriva e degli obiettivi ai quali tende. Osteggiare o assecondare fideisticamente un fenomeno che la Natura ha spontaneamente generato non ha grande senso: è come voler fermare uno tsunami con le nude mani. Sarà la stessa Natura a neutralizzarlo quando i suoi obiettivi verranno raggiunti. Quello che possiamo fare è solo cercare di comprendere questi obiettivi ed eventualmente assecondarli. Ma anche questo comportamento verrà guidato dalla “Mano Invisibile”, anche se di essa non sappiamo proprio nulla.

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Democratici per le Buone Riforme

La Carta Costituzionale  non è un vestito che si possa cambiare ad ogni stagione.

La costituzione Usa, dalla sua approvazione, il 17.9.1787, è stata emendata 17 volte per un totale di 27 modifiche.

Per quanto concerne la legge elettorale, in 300 anni, gli Usa hanno modificato la normativa federale solo due volte: nel 1804 e nel 1961. Il sistema uninominale secco (tranne che in due stati) è rimasto sempre la norma. Inoltre, la costituzione prevede date e cadenze certe per le consultazioni, escludendo arbitrarie dissoluzioni del parlamento. Anche i  frequenti e numerosi referendum sono automaticamente accorpati con le più vicine giornate elettorali, escludendo quindi la necessità di inventarsi dei minimi di partecipazione per la loro validità.

In meno di 70 anni di vita, prima dell’ultima riforma, quella italiana è stata ritoccata 19 volte, per un totale di 39 modifiche.

L’ultima revisione, quella sottoposta a referendum, modifica 46 articoli su un totale di 139. Questo massiccio intervento può essere letto in due modi: a) o quella fino ad oggi in vigore non è proprio ‘la più bella costituzione del mondo’ come spesso si sente ripetere; b) oppure quelle apportate non sono le più belle modifiche costituzionali del mondo.

In effetti, nei suoi settant’anni scarsi di vita, la costituzione italiana si è dimostrata abbastanza solida per quanto concerne l’impostazione di massima, anche se appare innegabile l’esigenza di alcuni stabili aggiustamenti, in particolare per quanto concerne:

  1. la separazione e il bilanciamento dei poteri;
  2. la governabilità;
  3. il controllo e il contenimento della spesa pubblica, l’eliminazione degli sprechi e la lotta a corruzione e clientelismo;
  4. la conciliazione della politica con la popolazione.

 

Separazione e il bilanciamento dei poteri

La Carta in vigore (ma anche quella ultimamente emendata), ad esempio, non prevede alcuna demarcazione tra funzioni esecutive, organi legislativi e organi di controllo.

Lo stesso soggetto può fare parte contemporaneamente dell’esecutivo e del Parlamento, essere cioè controllato e controllore, senza che nessuno avverta il conflitto di tale sovrapposizione di ruoli.  In oltre può personalmente detenere un potere economico tale da influenzare pesantemente le scelte di base degli elettori.

Il Parlamento è contemporaneamente organo legislativo e organo di controllo dell’esecutivo.

Invece di dirimere tali macroscopiche incompatibilità, la riforma proposta, introduce ulteriori accentramenti di funzioni e potere in oligarchie sempre più ristrette: il contrario del concetto di democrazia inclusiva e partecipata.

 

Governabilità

La governabilità esprime l’esigenza di avere esecutivi  stabili e duraturi. A questo requisito viene associato anche il concetto di produttività del parlamento.

Soffermiamoci  sulla stabilità

Dalla loro costituzione ad oggi, gli Usa hanno avuto 45 presidenti e 45 esecutivi.

In 70 anni di repubblica, l’Italia ha avuto 27 Presidenti del consiglio e 64 governi.

La vulgata corrente è che tale instabilità sia dovuta al sistema bicamerale. A pochi viene il sospetto che si tratti invece di una naturale conseguenza della mancata separazione dei poteri tra l’esecutivo e gli altri organi istituzionali, a cominciare dall’incompatibilità tra membro del parlamento e incarico  di governo.

Tale sovrapposizione  di ruoli consente a tanti parlamentari di brigare per le cariche di ministro, utilizzando il proprio voto di fiducia nei confronti del governo quale  strumento di pressione (o ricatto)  al fine di ottenere poltrone o strapuntini: insomma a nessuno viene il sospetto che l’instabilità dei governi posa anche derivare dallo scalpitare dei parlamentari insoddisfatti.

Quando non manifestano il proprio scontento in maniera plateale (chi ha dimenticato il fenomeno dei ‘franchi tiratori’?) , questi votano/votavano controvoglia i governi, salvo cominciare immediatamente a tramare per la loro caduta.

Il fatto che la fiducia venga concessa  da una sola Camera, o da due, incide soltanto sull’ampiezza della platea dei votanti, ma non garantisce che tutti i parlamentari sappiano mettere da parte le personali  ambizioni nell’interesse della governabilità.

 

Bisogna poi aggiungere l’anomalia dei partiti. Previsti come facoltà e diritto dei cittadini dall’art. 49, i partiti  sono i veri padroni delle istituzioni. Nascono ed operano al di fuori di ogni regola, controllo e garanzia costituzionale, ma si comportano come organi istituzionali di livello superiore rispetto al Parlamento: un po’ come se nella Carta italiana ci fosse l’articolo 126 della Costituzione Sovietica (quello che garantiva al Partito Comunista il ruolo di ‘nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che di Stato’)

Tale concezione sovietica dei partiti, per altro, è stata recepita nella prassi e nei riti per la nomina degli esecutivi, oltre che nelle procedure per la formazione e presentazione delle liste elettorali: una evidente anomalia che concede ai padroni (nel caso di partiti padronali), ai signori delle tessere e ai gruppi  di controllo delle segreterie, poteri chiaramente in contrasto con lo stesso Articolo 1 (“la sovranità appartiene al popolo”). Come se ciò non bastasse, si è sviluppata, praticata e giustificata una singolare teoria sulla “disciplina di partito”, che contraddice l’esclusione dei vincoli di mandato dei parlamentari, prevista dall’art. 67.

Queste anomalie spesso hanno riversato le diatribe, le tensioni e le faide interne dei partiti sulla vita del parlamento e degli esecutivi, generando quell’ingovernabilità di cui ha sofferto la recente storia repubblicana. Cercarne altrove le cause è semplicemente deviante.

Occorre, dunque, ripensare e sistematizzare il ruolo, la democrazia interna e l’inquadramento istituzionale dei partiti.

Negli Usa, per continuare a citare uno dei due più antichi esempi di democrazia stabile, i partiti hanno solo un ruolo ausiliario nei confronti degli eletti e dei gruppi parlamentari. Istituzionalmente chi rappresenta il  partito non è il suo presidente (che non è mai un congressista o senatore in carica) , ma il portavoce del gruppo parlamentare; ed è a livello di gruppo parlamentare (ossia di eletti dal popolo) e di portavoce che si definiscono le politiche del partito. Non viceversa. Ogni ingerenza esterna è mal tollerata.

Liste elettorali. Altra caratteristica statunitense è quella delle liste elettorali.

Il voto è un diritto, ma per esercitarlo occorre fare un piccolo sacrificio: dichiarare formalmente tale volontà mediante l’iscrizione alle liste elettorali.

Questa formalità va espletata solo la prima volta, mediamente non oltre dieci giorni prima delle votazioni. Tale termine ha due valenze: una puramente organizzativa, l’altra più politica, in quanto serve ad evitare che il voto, invece di essere un gesto ponderato, venga influenzato da fattori emotivi o dagli slogan dell’ultimo istante. Un fenomeno, questo, che  in Italia si è verificato più volte, con clamorosi ribaltamenti delle previsioni di tutti gli istituti demoscopici (forse anche a seguito di massicce dosi di pubblicità più o meno occulta, o informale degli ultimi giorni da parte di chi poteva).

Le liste degli elettori – assieme a lunghe campagne elettorali che iniziano con primarie di dibattito e divulgazione,  non solo di voto-  possono costituire una mitigazione del rischio dell’improvvisazione insito nel suffragio universale automaticamente garantito. Ciò, soprattutto,  in un periodo in cui le democrazie occidentali sembrano ostaggio di minoranze incerte o indecise, spesso anche disinformate, o che giocano a dadi, spostando in un verso o nell’altro l’esito delle consultazioni.

Obbligati ad esprimersi da leggi elettorali che negano dignità all’astensione responsabile (salvo  poi premiarla e rafforzarne il peso nelle consultazioni referendarie con quoziente di partecipazione minimo), il voto degli incerti  e dei disinteressati alla politica finisce col pesare sulle scelte d’un paese notevolmente di più di quello degli elettori responsabili e informati.

Attualmente in Europa l’obbligo di voto esiste solo in Italia, Belgio, Cipro, Grecia e  Lussemburgo. Vige anche in Australia, dove l’astensione ingiustificata viene punita con un’ammenda. Non sembra, però, che il dovere di votare abbia sempre agevolato la governabilità (vedi Belgio e Italia) o la formazione di maggioranze forti (vedi Australia).

 

Il sistema elettorale

Il sistema elettorale più longevo del mondo è quello basato su collegi territoriali uninominali.

Contrapposto a questo c’è il sistema proporzionale, con collegi più ampi, che è quello che più si avvicina al concetto di rappresentatività  statistica del corpo elettorale.

Il sistema uninominale normalmente garantisce più governabilità, e  soprattutto crea un rapporto diretto e stretto tra elettori ed istituzioni; tuttavia, penalizza i movimenti minoritari e le idee innovative.

Un modo per correggere la minore democraticità dei sistemi uninominali viene offerto dai sistemi elettorali più avanzati come il voto alternativo, il voto alternativo all’australiana o il sistema del voto di valore.

Il voto alternativo semplice, consiste nell’esprimere due voti: uno per il candidato più gradito, e uno per quello meno sgradito. Se nessun candidato raggiunge la maggioranza, i voti primari vengano sommati a quelli secondari e viene scelto quello che oltre a riscuotere più consensi è anche oggetto di minori dissensi.

Insomma, una specie di doppio turno (sistema francese) in unica votazione, ma senza restringere la seconda scelta solo ai due candidati più votati.

Il doppio turno francese, in effetti, oltre ad essere più lungo e doppiamente costoso, non ha riscosso molto successo nel resto del mondo. Il voto alternativo, invece, consente di sapere chi ha vinto e chi ha perso la stessa sera delle elezioni, senza dovere aspettare ancora due o tre settimane per il ballottaggio, non limita la seconda scelta e non da luogo a quel mercato di vacche che caratterizza le elezioni francesi per guadagnare  l’appoggio dei candidati bocciati.

Il voto alternativo all’australiana, che in un certo senso comprende anche una forma graduata di voto negativo, consiste nell’esprimere l’ordine di preferenza per ciascuno dei candidati del collegio, dal più gradito a quello più detestato. Gli scrutini, tuttavia, sono più complessi e a volte possono richiedere giorni. Infatti, se nessun candidato, raggiunge la maggioranza dei consensi (cioè, è stato votato come il primo più gradito dal 50% più uno), si passa a calcolare anche i voti di seconda preferenza; se neanche in questo modo nessun candidato supera la maggioranza assoluta, si rende necessario computare anche i voti di terza preferenza e così via, fino a trovare il candidato che raggiunga la maggioranza assoluta.

Nel 2002 il partito laburista britannico ha promosso un referendum per sostituire il maggioritario secco con questo sistema, ma gli elettori lo hanno bocciato.

Negli Stati Uniti, questo sistema viene indicato col termine ‘voto con sistema a graduatoria’ e viene già utilizzato per le comunali in una decina di grandi città (ad esempio Portland). Tra i suoi più autorevoli sostenitori c’è Barack Obama, John McCain (rep), Bernie Sanders (dem) e Howard Dean (dem). Dean, inoltre, ritiene che il voto alternativo sia particolarmente adatto nelle situazioni di multipolarismo.

Nello stato del Maine la sua estensione a qualsiasi tipo di elezione politica è oggetto di un referendum statale che si svolgerà contemporaneamente alle prossime elezioni presidenziali.

 

 

Col voto di valore, infine, l’elettore attribuisce a ciascun candidato un voto (come quello scolastico, mettiamo, da uno a dieci). Viene eletto quello con il voto medio più elevato.

 

Il sistema proporzionale assicura più democrazia. Spesso, però, è ostaggio dei partiti e dei Signori delle Liste; inoltre,  i suoi costi, notevolmente più elevati, a volte costituiscono un alibi morale per la corruzione.

Il voto singolo trasferibile, è un adattamento del voto alternativo al sistema proporzionale con preferenze. Infatti permette all’elettore di assegnare più di una preferenza, nell’ambito della lista scelta,  numerando i vari candidati sulla scheda elettorale.

Il sistema è usato a livello nazionale nella Repubblica d’Irlanda, a Malta e per l’elezione del senato australiano. A livello regionale e locale è usato per l’assemblea regionale dell’Irlanda del Nord, le aree amministrative della Scozia ed alcune amministrazioni regionali di Australia e Nuova Zelanda. È stato usato anche negli Stati Uniti per le elezioni del 2006 in almeno dieci grandi città e contee. Una sua variante è stata adottata per l’elezione del sindaco di Londra.

 

Scelta e presentazione dei candidati

La presentazione delle candidature spesso offre il fianco a forme di coartazione e violenza della democrazia.

Negli Stati Uniti, la selezione e la presentazione dei candidati normalmente avvengono secondo il sistema delle primarie o dei caucus: entrambi rigidamente regolati da leggi  statali. Le elezioni primarie, in oltre,  non consistono tanto in una mera consultazione d’un giorno,  quanto in un processo selettivo che dura parecchi  mesi. L’obiettivo è consentire agli aspiranti candidati di farsi conoscere e apprezzare. La scelta finale deriva dalla somma dei voti di quanti, nei vari appuntamenti locali, hanno avuto modo di valutare le idee e le proposte dei concorrenti. Solo in questo modo la classe dirigente può costantemente rinnovarsi.

Non è esclusa, tuttavia, la presentazione di candidati indipendenti.

Nella storia repubblicana italiana, le candidature sono state quasi sempre monopolio delle segreterie di partito. Pensare che questo sistema sia estraneo all’instabilità dei governi passati sarebbe mera finzione. Insistere su questa strada, puro manicheismo.

Una legge elettorale, dunque, non può prescindere, oltre che da un obbligo di garanzie democratiche certe sulle cadenze elettorali e sul funzionamento dei partiti, da precise norme sull’obbligatorietà e il funzionamento delle elezioni primarie.

In alternativa si potrebbe togliere ai partiti il monopolio della presentazione delle liste. Chi intende candidarsi si presenta da solo e, se vuole, indica a quale gruppo parlamentare si iscriverà una volta eletto.  Si potrebbero avere più candidati che dichiarano di ispirarsi allo stesso partito: le segreterie dei partiti potranno fare campagna per l’uno o per l’altro, ma sarà sempre il cittadino a scegliere.

E il logo dei partiti? Nei paesi più avanzati, il logo non viene più usato: è solo un retaggio dei tempi in cui il tasso di analfabetismo era elevato.

In Italia, purtroppo, ancora non abbiamo metabolizzato una vera tradizione di primarie. Le prime celebrate in tutto il paese, nel 2005,  sono state prevalentemente  una manifestazione di legittimazione. Successivamente il termine è stato mal utilizzato e, soprattutto, mal realizzato, estendendo il termine fino ad assumere il significato di elezioni aperte anche a non iscritti al partito che le proponeva per le sue cariche interne.

 

Per quanto concerne la produttività delle Camere, come prima cosa bisogna sottolineare la commistione di compiti e funzioni del bicameralismo perfetto (per altro solo parzialmente risolto, quando non aggravato dall’ultima riforma).

A parte il ruolo dell’esecutivo (che esegue, e che a questo deve limitarsi), il principio della  separazione dei poteri deve essere applicato anche alle funzioni legislativa e di controllo, attualmente esercitate pariteticamente  da entrambi i rami del Parlamento.

Una delle cause di tale commistione probabilmente  è dovuta all’ambiguità del termine ‘legge’. Questa dizione, infatti,  ingloba concetti diversi ed eterogenei. Si definisce legge, per esempio, la norma che vieta o autorizza l’aborto o l’eutanasia, così come si definiscono leggi quelle sul bilancio dello stato, sui cani randagi o la pesca delle arselle.

Che una certa differenza ci sia, lo comprende chiunque. Né occorre per forza cambiare il vocabolario per sottolineare che esiste Legge e legge.

La Costituzione vigente e quella modificata non affrontano minimamente questo aspetto.

 

Una o due camere?

Inizialmente la costituzione statunitense prevedeva una sola camera. I risultati furono a dir poco disastrosi e gli stessi padri costituenti corsero subito ai ripari, passando ad un sistema di bicameralismo perfetto che nessuno ha mai pensato di cambiare.

La principale differenza col bicameralismo italiano (oltre al fatto che i senatori e i congressisti Usa non possono far parte dell’esecutivo, mentre gli italiani possono),  è la mancanza del cosiddetto ping-pong, o navetta delle leggi.  Se la Camera che si occupa di un disegno di legge per seconda introduce modifiche al testo approvato dall’altro ramo del Parlamento, non si verificano rimandi e nuove letture, ma si procede all’istituzione di una camera di conciliazione.

 

Semplificazione e produttività

Per chi voglia mantenere un sistema di bicameralismo perfetto, quella americana è una soluzione semplice ed efficace.

Chi, invece, pensa che nell’era digitale si possa osare qualcosa di più, e magari sogna una democrazia internettizzata, per ora potrebbe contentarsi d’una semplice diversificazione delle materie tra Camera e Senato che rispecchi meglio quella separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu:

  1. da un lato una Camera che dà la fiducia all’esecutivo, ne controlla l’operato e legifera in materia di spesa e organizzazione dello Stato;
  2. dall’altro un Senato che si occupa solo ed esclusivamente delle Leggi etiche (o non di spesa).
  3. Eventuali interventi comuni sulla stessa materia, potrebbero verificarsi solo qualora la pratica attuazione di una Legge Etica comporti un qualche onere per lo stato (caso non del tutto infrequente); oppure se, ipotesi più rara, una misura amministrativa o di organizzazione dello stato possa incidere su qualche principio etico: in ogni caso, il coinvolgimento dell’altro ramo del parlamento sarà sempre limitato all’aspetto di propria competenza.

 

 

Controllo e contenimento della spesa pubblica

Uno dei leitmotif dei fautori dell’ultima riforma è la riduzione dei costi della politica.

In effetti, le economie vantate, avrebbero potuto essere ottenute in parecchi altri modi; ad esempio riducendo contemporaneamente il numero dei deputati. Tuttavia si sarebbe trattato sempre di economie frizionali, esclusivamente simboliche e che non vanno certamente nella direzione di una maggiore inclusività, partecipazione e avvicinamento tra istituzioni e popolazione: al contrario sembrano tendere verso un crescente elitarismo ed accentramento del potere. Il restringimento del ‘campione rappresentativo della popolazione’, quale dovrebbe essere il Parlamento, va a scapito della sua rappresentatività anche nel senso statistico del termine.

Non v’è dubbio, invece, che il contenimento dei costi dello stato sia quanto mai improrogabile, e la sequela di commissari alla revisione della spesa (quando questi non sono stati nominati per motivi di mera  comunicazione o propaganda) ne testimonia l’urgenza.

Le economie realizzabili dalla messa in atto delle proposte dei vari commissari, tuttavia vengono  sistematicamente vanificate da nuove spese, non sempre urgenti o prioritarie, né giustificate, sicché il fabbisogno dello stato è l’unico dato economico di questo paese in inesorabile e incontenibile crescita.

Sul piano delle riforme, una proposta ribadita da tutti i commissari era l’abolizione delle provincie e l’accorpamento dei piccoli comuni. Per quanto concerne le prime, ne verrebbero abolite solo alcune: quelle più grandi (pari al 38% della popolazione) sopravvivono sotto la più pomposa dizione di città metropolitane.

Le economie conseguenti l’abolizione delle provincie -nella misura in cui ci siano effettivamente- sono dunque a macchia di leopardo.

Commissari alla revisione della spesa a parte, tuttavia, quando si compara la composizione  della spesa pubblica nei vari paesi, un dato balza immediatamente agli occhi: l’eccessivo costo degli organismi locali italiani. Rispetto alla Germania, per esempio, la nostra democrazia locale costa quasi 5 punti di pil in più. È  in questa direzione, dunque, che bisogna agire.

Una soluzione potrebbe consistere nell’abolizione del sistema dei comuni e il passaggio a quello delle contee: unità territoriali non più piccole di un collegio elettorale e con i poteri degli attuali comuni e delle provincie abolite a da abolire.

 

Decentramento e centralizzazione

Dopo decenni di ubriacatura regionalistica (la cosiddetta devoluzione), il pendolo della politica italiana è tornato ad oscillare nel campo della centralizzazione.

La modifica dell’articolo quinto della costituzione dovrebbe essere da monito soprattutto per quanti la propugnano: le costituzioni non sono vestiti da cambiare a seconda che piova o splenda il sole. Né tanto meno a seconda delle convenienze elettorali.

La revisione decentralizzatrice del 2001 è stata un errore, non  tanto perché fossero sbagliati i principi fondamentali ai quali si ispirava, quanto perché varata prevalentemente con ottica elettoralistica e senza un consenso largo e trasversale. Ed  è allo stesso modo un errore, oggi, volere fare passare modifiche  inorganiche e incoerenti, prevalentemente sostenute (o avversate) da mutevoli convenienze di parte, e prive d’una visione strategica profonda e di lungo periodo.

Per quando concerne il merito della proposta di ritorno ad un sistema centralizzato di materie come la sanità, il turismo o l’agricoltura, rincresce che la formulazione del quesito referendario, da parte dei proponenti, sia stata fatta in modo generico e omnicomprensivo: con un maggior senso di democrazia e/o di previdenza (o con minore arroganza e/o malizia  elettorale, o con quella più profonda riflessione che si richiede ad un buon leader prima di ogni iniziativa), sarebbe stato meglio formulare tante diverse richieste di referendum in modo da consentire agli elettori più critici di non dover necessariamente gettare il bambino assieme all’acqua sporca. Ma così non è stato.

 

Conciliazione della politica con la popolazione

La disaffezione dei cittadini nei confronti della politica è sotto gli occhi di tutti. Le cause sono molteplici, ma una prevale su tutte: i politici tendono a diventare delle caste chiuse, lontane e insensibili alle priorità della popolazione.

L’elettore rimprovera ai politici soprattutto due cose: il prevalere dell’interesse privato su quello generale  e la trasformazione del servizio pubblico in fonte di privilegi e tornaconti personali.

 

Conflitto d’interesse

Probabilmente l’Italia non ha bisogno di nuove leggi su questa materia. Alcune norme esistono già, ma per decenni sono rimaste lettera morta. Una sistematizzazione e attualizzazione delle stesse, comunque, è opportuna.

In particolare, occorre modernizzare la normativa sulla conflittualità tra i vari tipi di potere, considerando anche quelli non istituzionali, come l’influenza sui mezzi di comunicazione, il potere economico degli azionisti e dei dirigenti delle grandi imprese (sia private che pubbliche), e regolamentare meglio il passaggio da tali posizioni  ai ruoli elettivi.

 

Durata e numero dei mandati

Un’attenta osservazione sulle politiche dei presidenti degli Stati Uniti (che potrebbe valere anche per i sindaci italiani), evidenzia come, dove esistono limiti costituzionali o consuetudinari al numero dei mandati,  generalmente gli eletti danno il meglio (il peggio) di sé nell’ultimo periodo  non rinnovabile.

Fintantoché pende sul loro capo la spada di Damocle della rielezione, gli eletti spesso sono prigionieri  di tatticismi, ambiguità e furbizie, per non parlare d’una maggiore esposizione  alle tentazioni corruttive (a causa del non trascurabile costo delle campagne elettorali).

La conseguenza di queste osservazioni non può che essere una: l’ottimizzazione del mandato elettorale richiede che questo sia uno solo e non più rinnovabile. Bisogna evitare che la politica diventi mestiere: un fenomeno molto frequente in particolare quando l’excursus politico comincia in giovane età, senza che si abbia ancora maturata una propria professionalità.

Nelle grandi imprese, di norma, un incarico di vertice non si protrae mai oltre i cinque-sei anni. Si ritiene, infatti, che trascorso tale periodo il dirigente tenda a routinizzarsi e non possa dare più il meglio di sé: deve cambiare mestiere e, spesso, anche azienda e settore merceologico per rigenerare.

Non c’è nessuna ragione perché nel pubblico non si faccia lo stesso, tranne il fatto che ad esserci dentro ci si prende troppo gusto, e fuori del Palazzo molti politici non saprebbero più cosa fare.

Una soluzione ragionevole (che compensa anche il non sempre breve periodo di apprendistato, prima di entrare negli ingranaggi del potere) potrebbe consistere nell’allungamento dei mandati a sei-sette anni.

 

 

Il referendum

La riscrittura costituzionale voluta dal Governo, comunque,  ha due grandi meriti:

  • L’avere ribadito che le riforme non possono essere solo argomento per dibattiti più o meno colti, e che alla fine bisogna decidersi a farne una. Non possiamo morire come l’asino di Buridano, nell’incapacità di deciderci.
  • L’avere rotto il tabù della devoluzione (che i fautori chiamavano all’inglese, pensando così di dargli più autorevolezza ed efficacia).

L’agire a qualsiasi costo, tuttavia, non è sempre una scelta prudente. Con questo ragionamento sarebbe stato meglio non respingere la riforma costituzionale del 2005/2006: avremmo guadagnato dieci anni.

Una cattiva medicina non è affatto meglio di nessuna medicina:  non garantisce la guarigione, quando non aggrava le condizioni più di quanto possa fare il decorso non curato della malattia: piuttosto che una medicina sbagliata, meglio affidarsi alle difese naturali dell’organismo

In quanto alla devoluzione, non si può notare una certa contraddittorietà tra ritorno al centralismo o all’unitarismo, e il non sapere trovare soluzioni alternative al tormentone del cosiddetto  senato federale: fintantoché i collegi elettorali rimangono ancorati al territorio, parlare di senato federale costituisce un sottolineatura  puramente demagogica.

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Migrazioni e terrorismo: due conseguenze dello stesso problema

L’immigrazione è all’ordine del giorno da quasi un decennio e per almeno altri dieci anni continuerà ad occupare le prime pagine dei quotidiani.

Se ne parla soprattutto il termini di cronaca o per trovare sistemi per contrastarla, ma non si leggono molti articoli che cerchino di analizzarne anatomicamente le radici e le sue principali sfaccettature. Ed è la cronaca, quella più contingente, legata agli eventi bellici di talune regioni, e che si vuole distinguere dalla più generale ondata immigratoria di natura economica, che obbliga ad un’anamnesi del fenomeno in grado di generare una diagnosi non viziata dall’emotività, al fine di identificare una coerente linea terapica.

Sebbene l’emozione dell’opinione pubblica sia maggiorente rivolta verso la situazione di chi fugge da situazioni di guerra, pertanto, occorre fare un passo indietro ed analizzare con onestà intellettuale le cause di fondo dell’immigrazione, che sono direttamente legate all’impari distribuzione della ricchezza tra il Nord e il Sud del mondo.

Da quando si è esaurita (per il fallimento economico dei paesi autodefiniti socialisti) l’antitesi politico-economica Est-Ovest, la dicotomia Nord-Sud, intesa quale contrapposizione tra il mondo di chi ha e quello di chi non ha, è emersa ad andate come uno dei principali problemi dell’attuale periodo storico. Tale contrapposizione, tuttavia, è rimasta più oggetto di erudite disquisizioni e saggi di geopolitica, che argomento di discussione e iniziativa all’ordine del giorno degli incontri dei potenti di turno.

L’avere rilegato tale tematica nei circoli culturali più lungimiranti è probabilmente la causa prima di molti di quei problemi che in questi decenni stanno assillando la società umana, a cominciare appunto dell’esodo migratorio sud-nord e dal fenomeno – come vedremo- ad esso legato, del terrorismo.

L’abbondono del problema all’iniziativa dei singoli stati e/o, peggio, alle forze incontrollate della società spontanea, ha provocato nel Sud del mondo una serie di azioni e reazioni che possiamo categorizzare secondo due diversi filoni:

  1. iniziative governative dei paesi in via di sviluppo o a sviluppo avanzato (i cosiddetti BRICS), o che controllano le risorse di cui sono avide le nazioni ricche, paesi Opec in testa;
  2. iniziative spontanee delle popolazioni economicamente più arretrate o politicamente inerti.

 

Il loro comune denominatore è la spinta a contendere quote di risorse consumabili alle economie opulente.

 

Attivismo istituzionale

 

Trasformando il controllo dei cambi da strumento di sfruttamento da parte dei paesi ricchi in arma di lotta economica, alcuni paesi con in testa la Cina e, in qualche misura, ma solo temporaneamente, quelli dell’Europa ex-socialista, hanno fatto leva sulle leggi del mercato per invadere l’Occidente con prodotti forse poco sofisticati, ma a prezzi molto competitivi. Ne è derivato un forte indebolimento del settore manifatturiero dei paesi avanzati che ha messo in crisi le economie delle nazioni meno preparate ad affrontare la competizione internazionale sul piano dell’innovazione e della qualità, anziché su quello dei prezzi.

 

Questo fenomeno ha causato lo spostamento di considerevoli masse di denaro verso alcuni paesi emergenti. Tuttavia solo il governo cinese (l’unico che conserva il controllo completo di quasi tre quarti della propria economia) ha potuto utilizzare tale afflusso di mezzi di pagamento in maniera strategica. Tale manovra non ha potuto essere utilizzata dagli altri paesi BRICS per via della frammentazione privatistica del sistema produttivo e del conseguenziale e contemporaneo illecito deflusso dei capitali verso i paradisi fiscali.

 

Altri paesi, favoriti dalla distribuzione geo-fisica delle risorse (mi riferisco in particolare al regno e agli emirati arabi) hanno impostato la propria strategia di contrapposizione alle ricche nazioni dell’emisfero Nord in maniera meno evidente, ma più sofisticata ed efficace: il denaro dell’Occidente, infatti ha continuato a riversarsi nelle loro casse allo stesso ritmo con cui dai pozzi fuoriusciva il flusso di greggio; a questi governi incombeva il solo compito di amministrarlo

  1. per soddisfare i più sfrenati bisogni di consumo interno,
  2. per investimenti in vista dell’esaurimento dei pozzi e/o della crescita delle risorse energetiche alternative a quelle fossili,
  3. ma, soprattutto, per operare una singolare emigrazione di ritorno dei petrodollari verso i paesi sviluppati dai quali erano arrivati, in cambio di una inversa emigrazione del potere di controllo su molti grandi imprese multinazionali o sulle proprietà immobiliari dei centri storici delle grandi capitali.

 

Iniziative spontanee: l’integrazione

 

Là dove sono mancate politiche governative adeguate (a livello statale e, soprattutto, internazionali) le popolazioni di numerosi altri paesi arretrati hanno sviluppato due forme di reazione spontanea all’iniqua distribuzione delle risorse consumate: il sottomesso anelito all’integrazione o la rabbiosa contrapposizione.

 

Larghe fasce dell’umanità più sfavorita hanno cominciato ad invitarsi alla mensa dei paesi più ricchi, scegliendo la via dell’integrazione attraverso l’antico strumento dell’emigrazione. Tutta la storia della Specie, del resto, è contrassegnata dal fenomeno migratorio e , come per certi uccelli, forse un giorno si scoprirà che nel DNA umano esiste un gene che lo porta incessantemente alla ricerca di nuove terre promesse.

Quando l’umanità, appena scesa dagli alberi dell’altipiano etiopico (o del sud africano) , cominciò la colonizzazione del pianeta, tutta la storia è stata contrassegnata da più o meno epocali spostamenti verso terre (ritenute) più fertili o meno affollate. Inutile scendere nei dettagli.

E anche oggi, del resto, il recente fenomeno del turismo di massa può essere considerato come una non episodica emergenza d’una ancestrale spinta verso l’esplorazione di terre sconosciute o di diverse sedentarizzazioni: più ci si radica in una città e condizione, e più forte si avverte il bisogno di temporanee emigrazioni verso terre meravigliose di cui si conserva il ricordo fino alla seguente vacanza, come di uno dei periodi più gratificanti e gratificati dell’anno.

 

Tra molte popolazioni al disotto della soglia di sussistenza, l’individuale integrazione all’interno delle nazioni opulente oggi è forse la prima e più grande aspirazione.

Tale spinta, per altro, non potrà che crescere ulteriormente col divaricarsi della forbice distributiva, anche a fronte dei possibili ulteriori impoverimenti dei paesi di provenienza per le deteriorate o deteriorabili condizioni politiche e climatiche. A meno che non si intervenga in questi stessi paesi con apposite politiche dell’ONU.

 

La contrapposizione

 

In questo quadro assume particolare importanza la reazione di taluni gruppi che in occidente siamo abituare a definire “estremisti”.

 

Il loro ragionamento merita una particolare attenzione.

 

Normalmente partono dall’evidente e incontestabile constatazione della diseguale distribuzione delle risorse consumate, rilevando come i maggiori livelli di benessere e ricchezza si concentrino nell’emisfero Nord del mondo. Rilevano poi come tale geografia distributiva coincida con la geografia religiosa del pianeta.

Da tali semplici constatazioni stabiliscono una quasi lapalissiana transitività delle equazioni

Paesi Ricchi = Paesi Cristiani

Paesi Poveri (e sfruttati dai ricchi) = Paesi Islamici

 

Da qui la contrapposizione economica Nord-Sud si connota di una valenza religiosa quale conflitto tra Paesi Islamici e Paesi Infedeli, ovunque questi si trovino (da cui, ad esempio, i conati di lotta di alcuni gruppi uiguri, maggioritariamente islamici, contro il governo centrale cinese, ovviamente infedele).

 

Un aspetto interessante di tale radicalizzazione è non solo l’ovvia chiamata alle armi degli Islamici contro gli Infedeli, ma l’ancor più accesa (e spesso sanguinosa) rivalità tra Fedeli che propugnano tale lotta ed i correligionari che non la condividono.

 

Chiaramente il grado di strumentalizzazione della religione è al massimo; tuttavia in molte aree cosiddette di crisi questi richiami stanno funzionando e alimentano la mobilitazione contro gli infedeli sfruttatori fino a fornire la base ideologica e nobilitante del terrorismo. Che non è un fenomeno nuovo, dato che il primo “terrorista” della storia lo ritroviamo in quel Sansone biblico che provocò la morte propria e di tutti i maggiorenti filistei, facendo crollare le colonne della costruzione dove si trovava in condizioni di cattività.

 

Per tornare al nostro tema principale, il terrorismo va considerato come una specie di rovescio della medaglia dell’emigrazione e una delle tante sfaccettature del poliedro dell’iniqua distribuzione della ricchezza.

 

È l’intero problema della distribuzione della ricchezza, dunque, che va affrontato se vogliamo risolverne una qualsiasi delle sue problematiche faccettature. Tentare scorciatoie o soluzioni diverse è antistorico e non può che aggravare la situazione.

 

Profughi di guerra e di fame

 

La crisi migratoria ha fatto affiorare la parte peggiore e quella migliore della vecchia Europa. La pubblicazione di immagine drammatiche da parte dei media ha suscitato una forte ondata di emozione, cui fa da contraltare il cinismo di taluni governi e politicanti populisti.

 

Inutilmente la parte più lungimirante dell’Unione ha cercato di risvegliare negli altri i più elementari sentimenti d’umanità, facendo leva sulle immagini più tragiche dei profughi di guerra. In effetti la distinzione tra questi e gli immigrati economici è labile e non ha un senso reale, se non per la maggiore impellenza e gli ormai sbiaditi ricordi che alcuni europei conservano dell’ultima grande guerra.

 

Fuggire dal rischio di morte cruenta per bombe non è granché differente dal fuggire dal rischio d’una morte più lenta per fame: cambia solo l’urgenza, ma non tanto.

 

Nello specifico, poi, gli esuli siriani e afgani in buona parte sono anche la conseguenza delle politiche di intervento e di non intervento adottate nel recente passato dai governi del Nord del mondo (occidentali e orientali), nei confronti di questi paesi. Anche l’andamento climatico, con le recenti eccezionali siccità nell’area siriana e irakena, può avere avuto un ruolo importante, favorendo prima delle forti ondate di urbanizzazione e successivamente la fuga dalle città bombardate. C’è poi il caso intermedio del Sudan del Sud e dell’Eritrea, che guai a toccarli senza suscitare le ire o le preoccupazioni di alcuni paesi che contano (leggi Russia e Cina), perché si infrangerebbe il tabù della non ingerenza.

 

Alcuni governanti poco avvezzi allo studio della storia pensano di potere risolvere il problema ergendo muri, tagliando ponti e sfornando decreti. Ci avevano provato i romani un millennio e mezzo fa (in Gran Bretagna e nei confronti dei cosiddetti barbari) e a più riprese innumerevoli potentati cinesi nei confronti delle popolazioni nomadi di frontiera. Ma sempre con risultati scarsi, se non nulli, ed aleatori.

In un mondo che si fa sempre più piccolo, è difficile che ci riescano oggi.

Siamo in un’era in cui le merci sono praticamente libere di circolare in tutto il pianeta, salvo il pagamento di qualche dogana, e difficilmente si potrà contrastare a lungo la libera circolazione delle persone. Piaccia o non piaccia, un mondo senza confini e senza passaporti non è solo auspicabile, ma costituisce una tappa storicamente inevitabile.

I colloqui in corso per un mercato comune transatlantico e per un’analoga comunità dei paesi che si affacciano sul Pacifico, con tutti i limiti e i problemi connessi con le metodologie di negoziazione, vanno in questa direzione.

 

Aiutarli a casa loro

 

Per quanto riguarda gli immigrati economici, hanno certamente ragione coloro che onestamente ritengono che l’aiuto debba iniziare a casa loro. Non so, però, se i sostenitori di questa tesi si rendano perfettamente conto di cosa ciò comporti. Non si tratta, infatti, di mandare un po’ di noccioline e vestiti usati, per mettere in pace la coscienza.

Per aiutarli veramente a casa loro, occorre risolvere la causa prima del fenomeno migratorio, ossia quello squilibrio nella distribuzione delle risorse dal quale siamo partiti. Soprattutto bisogna accantonare la diffusa illusione che le crisi occupazionali e di PIL di alcuni paesi occidentali possano essere risolte con politiche di sostegno ai consumi interni: è come volere combattere la droga somministrandone ulteriori dosi; si avrà un temporaneo sollievo alle sofferenze dell’astinenza, ma nessun vantaggio duraturo, se non un ulteriore aggravamento.

I cittadini dei paesi opulenti dobbiamo rassegnarci a consumare di meno e a dare di più (ossia quote maggiori del nostro lavoro) negli scambi col terzo mondo: un processo che il mercato ha già avviato, con i suoi tempi lunghi e molte vittime collaterali. Per evitare queste ultime, occorrerebbe che i governi prendessero la guida di tale tendenza, ma nessun politicante avido di voti (e sordo alla storia) è disposto a fare propria questa ricetta. E, comunque, di tratta di un discorso notevolmente più vasto che in questa sede può essere solo citato.

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Migrations and terrorism, two consequences of the same problem

Mass immigration appears in the politic agenda since almost a decade, and for at least another ten years will continue to occupy newspapers front pages.
Media attention is directed mainly to daily chronicles or to proposals on how to find ways to fight it, but they rarely analyze the deep roots and the main facets of the phenomenon. However these same chronicles, reporting fresher events linked to the war in some regions – often distinguished from the more general immigration wave (of economic nature)-, require an in-depth anamnesis of the phenomenon in order to generate a diagnosis untainted by emotion and identify a consistent therapeutic line.

The emotion of public opinion is driven overall by the tragedies of those who flee from war areas; therefore, we have to step back and analyze with intellectual honesty the underlying causes of immigration, which are directly linked to the unfair distribution of wealth between the North and the South of the world.

Since the political and economic split East-West has vaporized (due to the failure of the self-defined socialist countries), a North-South dichotomy, i.e. the conflict between the world’s haves and have nots, has emerged as one of the main problems of the present historical moment. This confrontation, however, has remained the subject of scholarly treatises and learned essays on geopolitics, but has never become the theme of a single international political meeting.

This careless negligence probably is the root cause of many of the problems that in recent decades are harassing the human society, starting precisely from the exoduses south-north and – as we will see- the associated phenomenon of terrorism.
The abdication of the international political instances in favor of the individual states and/or, worse, to the uncontrolled forces of spontaneous society, has triggered a series of actions and reactions that we can categorize according to two different strands:
a) government initiatives of some of the faster growing economies (the so-called BRICS), or who control the resources highly demanded by the rich nations, OPEC countries in the lead;
b) spontaneous answers of the populations of the most economically underdeveloped and politically absent countries.
The common denominator is that both groups aim to contend their part of wealth and resource to affluent economies.

Institutional activism

By transforming the money exchange control from a classical instrument of exploitation in the hands of the most rich countries, into a weapon of economic fight, some governments led by China have relied on the same laws of the market to invade the West with products, often unsophisticated, but at very competitive prices. The result has been a sharp weakening of the manufacturing sector of developed countries that has dealt a blow to the economies least prepared to face international competition in terms of innovation and quality.

This phenomenon has caused the displacement of considerable masses of money to some emerging countries. However, only the Chinese government (the only one that retains a complete control of nearly three-quarters of its economy) has used this influx of means of payment in a strategic manner. Such a maneuver is not available to the other BRICS because of private-fragmentation of the production system and the consequential and contemporary illicit outflow of the freshly arrived capitals towards tax havens.

Other countries, favored by the geo-physical distribution of resources (the kingdom and the Arab emirates) have set their strategy of competition with the rich nations of the North in a less obvious, but more sophisticated and effective way: Western money, in fact, has continued and continues to pour into their coffers at the same pace at which the wells flowed crude oil towards the North; these governments had only the sole task of administering the flux
a) to meet the needs of unbridled domestic consumptions,
b) to invest in view of the exhaustion of wells and/or the growth of energy sources alternative to fossil fuels,
c) but, above all, to make a singular return migration of petrodollars towards the developed countries from which they had arrived, in exchange for a reverse migration of the power of control over many large multinational companies or over the real estates of the greatest Northern capitals historical centers.

Spontaneous answers: the integration

lacking adequate government policies (at states and, especially, international level) populations of many underdeveloped countries have produced two forms of spontaneous reaction to the unequal distribution of wealth: a submissive integration desire or a rabid expropriation drive.

An increasing part of the most disadvantaged mankind has begun to invite itself to the table of the richest countries, choosing the path of integration through the ancient instrument of emigration. The entire history of the species, for that matter, is marked by migration and as for some birds, maybe one day you will find that there is a gene in the human DNA that leads us to constantly look for new promised lands.
When humanity, just fallen from the Ethiopian plateau (or South African plains) trees, began the colonization of the planet, the entire history has been marked by more or less epochal emigration shifts towards lands (considered) most fertile or less crowded. Needless to go into the details.
And even today, after all, the recent phenomenon of mass tourism can be considered as a non-episodic emergence of an ancestral push towards the exploration of unknown lands or different settlement alternatives: the more we are rooted in a city and state, and the stronger we feel the need of temporary emigration towards wonderful lands of which we preserve the memory (at least until the following vacation), as some of the most rewarding and gratifying days..

Among many people lying below the poverty line, the individual integration within opulent nations is the first and greatest aspiration.
This tendency, incidentally, will surely increase further with the widening of the wealth distribution gap, even in the face of possible further impoverishment of the countries of origin, due the deteriorated (or perishable) political and climatic conditions, unless a strong action is undertaken in those same countries with specific UN policies.

The struggle
In this scenery it is particularly important that we focus on the spontaneous reaction of some Middle-East groups we are getting used to call “extremists”.

Their reasoning deserves a special attention.

Normally they start from the evident and indisputable finding of unequal distribution of consumed resources, pointing out that the highest levels of well-being and wealth are concentrated in the northern hemisphere of the world.

The next step is the ascertainment that this distribution coincides with the religious geography of the planet.

These simple observations lead to establish the following almost self-evident transitivity equation:

Rich countries = Christians Countries
Poor (and exploited) countries = Islamic Countries

(It doesn’t matter if people in many poor countries is not Muslim. Not-Muslim poor countries are assimilated to the rich ones, or are not considered at all: they are infidels and the coherence is not important).

Hence the economic North-South conflict get characterized as a religious war between Islamic countries against infidel countries, wherever and how rich they are (hence, for example, the support to rebellion attempts by some Islamist Uighur groups, against the infidel central government in China).

Two interesting aspects of this radicalization, apart the call to arms of all Muslims against the rich infidels, are:

  • the fiercer apposition to their most close West, namely the State of Israel;
  • and the even more strong (and often bloodier) rivalry between believers who support the need for this holy war and the co-religionists who do not agree with this view.

These co-religionists are treated as traitors of the faith, therefore more foes than the real enemies.
Clearly, the degree of exploitation of religion for not religious goals is at its best; however, in many of the so-called crisis areas, these calls to arms are working, feed the mobilization against the rich and infidel exploiter countries and provide an ideological and ennobling basis for the most barbaric terrorism. Which is not so a new phenomenon, since the first kamikaze and terrorist in history has been the biblical Samson who killed himself and all the elders of the Philistines, by bringing down the columns of the building where he was under captivity.

To return to our main theme, terrorism has to be considered as a kind of flip side of emigration and one of the many facets of the polyhedron of the unjust distribution of wealth.

It’s the stem problem of wealth and resources distribution, therefore, which we should face if we want to solve any of the complex facets of our historic momentum, including immigration and terrorism.

Groped shortcuts or different solutions are unhistorical and can only worsen the situation.

War and of hunger refugees

The migration crisis has brought to the surface the worst and the best of the old Europe. The dramatic images published by the media have sparked a wave of emotion, which is matched by the cynicism of some governments and populist politicians.

In vain the farsighted Union citizens have tried to awaken the most basic feelings of humanity, relying on the tragic images of war refugees. In fact, the distinction between these people and the economic migrants is weak and does not have a real sense, if not for the greater urgency degree and the faded memories that some Europeans retain of the world war.

A bloody death due to bombs is not much different from a slower death due to hunger: only the urgency for an help may change, but not so much.

Specifically, then, the exiled Syrians and Afghans are also the result of political intervention (and non-intervention) adopted in the recent past by the Northern governments (Western and Eastern), with regard to these countries. Even the climate, with the a decade of exceptional drought in Syria and Iraq, may have played an important role, first by encouraging strong waves of urbanization and then the escape from the bombed cities.

We cannot forget the case of South Sudan and Eritrea, which can’t be evoked without arousing the ire or the concerns of some big countries (like as Russia and China) who consider any foreign intervention as a break their non-interference taboo.

Some leaders, unaccustomed to the study of history, think that they can solve the migration problem by erecting walls, cutting bridges and churning decrees. The Romans (a millennium and a half ago, in Britain and against the so-called barbarians) and several times numerous Chinese potentates (against the nomadic border tribes) have tried this way . But always with poor, if not zero and uncertain results.
In a world that is getting smaller and smaller, it is difficult that they succeed today.

In an era when the goods are virtually free to move around the planet, except for the payment of some customs, it will be difficult to persist to counter the free movement of persons. Like it or not, a world without borders and passports is not only desirable, but constitutes an historically inevitable stage.
The talks underway for a transatlantic common market and for a similar community in the Asian South-East (apart the problems tied to the negotiation methods), are moving in this direction.

Let’s help them at home

As for the economic migrants, those who honestly believe that the aid should begin in their own countries are surely right. It is not sure, however, that the proponents of this point of view are fully aware of what it involves. In fact, it is not enough to send them some peanuts and used clothes, to bring peace to our conscience.
To help them in their countries, as first thing we should give an answer to the main cause of migration, namely the imbalance in the distribution of resources. Above all, we must set aside the widespread illusion that the crisis of employment and GDP in some Western countries could be resolved with policies aimed to permanently support domestic consumptions: it is like trying to treat a drug addict by administering him additional drug doses; he will have a temporary relief to his abstinence, but in the long lung run his addiction will worsen.
As citizens of the affluent countries we must resign ourselves to consume less and to give more (or more shares of our working time) to the third world: a process which the market has already triggered, although with its lengthy and many casualties. To avoid the latter, it is necessary that the governments undertake to lead this trend, although no politician, eager for votes (and deaf to history), is willing to do own this recipe. In any case, this is a theme considerably broader which we cannot afford here.

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Il dedicente califfato e l’esorcismo delle sigle

Il primo politico occidentale ad usare ufficialmente il termine ‘daesh’ è stato l’allora prima ministro australiano Tony Abbot. Negli ultimi due anni, il termine ha cominciato a farsi strada negli ambienti diplomatici e giornalistici come alternativa peggiorativa degli acronimi inglesi IS o Isis.

In effetti, gran parte di coloro che utilizzano la dizione ‘daesh’, lo fa per una specie di esorcismo delegittimatorio: in questo modo si vuole negare la definizione di stato implicita nelle varie sigle che si sono alternate per definire il sedicente califfato, da Isis (stato islamico dell’Irak e della Siria) a Isil (stato islamico dell’Irak e del Levante) a Is (stato islamico tout court e con più ampie ambizioni territoriali).

Ora, a parte il fatto che per il diritto internazionale gli elementi costitutivi di uno stato sono un territorio, una popolazione e un’organizzazione, e che il sedicente califfato presenta tutte queste caratteristiche, Daesh (in arabo ‏داعش‎) è un acronimo derivato dalla dizione ‘ad-Dawla al-Islāmiyya’ (الدولة الإسلامية), dove ad-Dawla sta appunto per ‘stato’. Non basta, dunque, cambiare latinorum se la sostanza rimane immutata.

Michele di Pisa,

  1. Coerentemente col le proprie regole ortografiche, la forma usata dai francesi è ‘Daech’, mentre i tedeschi scrivono ‘Daesch’. Analogamente, agli acronimi Is e Isis francesi e spagnoli preferiscono rispettivamente EI e EIS. Forse anche noi italiani dovremmo usare delle grafie coerenti con la nostra grammatica, ma la deriva americanistica di molti che soffrono d’una specie di complesso d’inferiorità perché l’inglese non lo conoscono o lo parlano male, rende utopica questa speranza.

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Daech ou EI?

Le premier homme politique occidental qui ait utilisé officiellement le terme ‘daech’ a été le premier ministre australien d’antan Tony Abbot. Au cours des deux dernières années, le terme est devenu une variante péjorative de l’acronymes anglais EI ou EIIS

En fait, l’utilisation de cet acronyme n’est qu’une une sorte d’exorcisme delégitimatoir, à fin de nier la définition d’état implicite dans les différentes sigles qui se sont succédées pour identifier la soi-disant Califat, à partir de EIIS (Etat islamique d’Irak et Syrie) et EIIL jusqu’à EI (Etat Islamique tout court, mais avec des ambitions territoriales majeures).

à part le fait que, selon le droit international, les éléments constitutifs d’un Etat sont le territoire, la population et l’organisation et que l’autoproclamé califat possède toutes ces caractéristiques, daech (en arabe داعش) est un acronyme dérivé de «ad-Dawla al-Islamiyya ‘(الدولة الإسلامية), où ad-Dawla signifie précisément «état ». Il ne suffit donc pas de changer latin, si l’essence reste la même.

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Totem e tabù

Articolo 18 sì, articolo 18 no. L’Italia politica e sindacale è galvanizzata da anni attorno a questo problema.

Per i fautori, si tratta d’un irrinunciabile valore di civiltà. Per i detrattori è il più grande ostacolo agli investimenti esteri, all’occupazione e, in una parola che tocca le sensibilità di tutti, alla ripresa economica.

Non voglio entrare nel merito, anche se in proposito anch’io potrei avere la mia da dire. Preferisco fare solo alcune osservazioni più micro-economiche.

La ragione per cui un operatore effettua un investimento sono varie, ma possiamo ricondurle a quattro o cinque tipologie.

In primo luogo dobbiamo distinguere tra le differenti figure d’investitore: l’operatore finanziario e l’imprenditore vero e proprio. Il primo decide i propri investimenti (normalmente sotto la forma di acquisizioni o di partecipazione societarie) solo ed esclusivamente in funzioni delle attese di redditività. Se nel loro complesso queste lo soddisfano, il finanziatore investe senza preoccuparsi troppo dei dettagli al contorno. Al limite, l’articolo diciotto potrà incidere come una variabile di maggiore o minore costo.

L’imprenditore industriale (inglobando in questa figura anche chi opera nel terziario) investe prevalentemente per due ragioni:

  1. perché ha un’idea di prodotto che vuole assolutamente realizzare;
  2. perché la domanda di mercato del suo prodotto ha superato o si prevede che possa superare la sua attuale capacità produttiva;
  3. perché vuole entrare in un nuovo mercato e, fatti tutti i suoi conti, ritiene che la strada migliore per garantirsene una fetta richieda un impianto produttivo in loco.

Se occorre una di queste condizioni, l’operatore comincerà a elaborare il suo piano di affari propedeutico all’investimento.

Qualora l’impianto sia destinato a servire un mercato multinazionale, tra le variabili del piano figureranno anche valutazioni d’ambiente, come la rete di comunicazioni, le politiche incentivali di taluni stati, il regime fiscale, la disponibilità di manodopera specializzata e così via. In questa fase potrebbe essere presa in considerazione la legislazione sul lavoro con l’eventuale presenza d’un articolo diciotto, come anche la lentezza o la celerità della giustizia, l’eliminazione delle rendite parassitarie derivanti da situazioni monopolistiche garantite dalle leggi, la qualità e duttilità del sistema scolastico e dell’istruzione tecnica: insomma, per usare una terminologia alla Frederick Herzberg, i “fattori d’igiene” che possono interferire col successo dell’impresa.

I guaio è che il mondo politico spesso confonde tra terapie e fattori d’igiene. Questi ultimi non curano le malattie: servono solo a prevenirle o a evitare che una cura azzeccata sia compromessa o depotenziata da condizioni igieniche inadeguate.

La sterilizzazione di una sala operatoria, per fare un esempio classico, è un fattore d’igiene: non serve a curare l’ammalato, ma a evitare che un intervento ben fatto sia compromesso da sepsi con conseguenze anche letali per il paziente.

In politica e in economia, la situazione non è diversa. Le normative sul lavoro, il funzionamento della giustizia civile e penale, la sburocratizzazione sono fattori d’igiene; non servono a sviluppare l’economia, ma costituiscono il presupposto sine qua non per la sua vitalità. I fattori di cura, invece, sono quelli atti a stimolare direttamente l’evoluzione, a cominciare dalla disponibilità di sufficienti capitali di rischio a favore per chi ha buone idee. Perché ciò che blocca l’economia italiana è proprio questo: coloro che hanno le idee non dispongono di capitali, mentre coloro che controllano i capitali sono a corto d’idee. E preferiscono nascondere i propri limiti dietro il paravento di sterili diatribe sull’articolo diciotto.

 

P. S.  Chiedo scusa a Freud per essermi appropriato del titolo d’una sua opera.

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Cristo si è fermato ad ebola

Il fiume Congo è stato la culla delle due principali malattie di origine virale del nostro tempo, la sindrome da immunodeficienza acquisita e l’ebola. La seconda prende il nome proprio da uno dei suoi subaffluenti.

La cronologia delle due epidemie è abbastanza coincidente. Tuttavia, mentre la prima oggi può essere considerata sotto controllo (anche se non si guarisce, è possibile conviverle in maniera abbastanza decente), per la seconda ancora siamo solo agli inizi.

Le ragioni di tale discrepanza sono facilmente identificabili. L’aids (non so perché in italiano non dovremmo chiamarla sida, come fanno gli spagnoli e i francesi) si è diffusa soprattutto fra alcune categorie influenti e in paesi ricchi, come la comunità omosessuale de mondo occidentale. Al contrario, sino a qualche mese fa, l’ebola è stata una malattia tipicamente africana, legata alle scarsi condizioni igieniche dei villaggi colpiti.

C’entra poco, ma l’assonanza mi tenta fortemente di parafrasare il titolo di Carlo Levi: forse Cristo si è fermato ad ebola.

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Come si dice “#” in italiano

Il 16 settembre scorso, la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Francese (JORF) ha pubblicato una direttiva con la francesizzazione di un elenco di nuovi termini informatici elaborato da una “Commission spécialisée de terminologie et de néologie de l’informatique et des composants électroniques”, un organismo istituito nel 1997 col compito di “redigere un inventario dei casi in cui è opportuno completare il vocabolario francese”.

In Italia purtroppo un tale organismo non esiste. Né si vede all’orizzonte alcun prestigioso ministro dei beni culturali voglioso e capace di varare una qualche politica di difesa della lingua italiana.

Nel 1983, con il “Dizionario dell’Informatica” che avevo firmato assieme ad Alberto Cultrera e Daniela Giacomelli, mi ero assegnato il compito di italianizzare e spiegare il senso di quasi 8.000 termini informatici, attingendo soprattutto all’uso che ne facevano i programmatori meno anglofoni. Tra questi c’erano l’ormai usato segno “@” (per il quale proponemmo “chiocciola”, in effetti, rimasto nell’uso comune) e “#”. Per quest’ultimo avevamo utilizzato il termine “cancelletto”, che però non ha avuto la stessa fortuna.

Nella tabella seguente riporto una versione leggermente ampliata della tabella delle equivalenze francesi pubblicata dal JORF del 16 settembre scorso, con delle proposte per la lingua italiana.

 

Inglese francese Italiano
application framework, framework, integrated development environment (IDE). environnement de développement, atelier de développement. ambiente di sviluppo, laboratorio di sviluppo
back office. arrière-guichet, n.m. assistenza (agli utenti), retrosportello
big data mégadonnées megadati
blog, weblog. blogue, n.m. blog
cover flow-like design. carrousel, n.m. carosello
crowdsourcing production participative finanziamento partecipativo
ebook libro elettronico
e-conference, web conference, web conferencing. cyberconférence, n.f. ciberconferenza, teleconferenza
e-ink, electronic ink. encre électronique. inchiostro elettronico
electronic paper, e-paper. papier électronique. carta elettronica, foglio elettronico
firewall pare-feu paratia (parafiamme o parafuoco)
framework, application framework, integrated development environment (IDE). environnement de développement, atelier de développement. ambiente di sviluppo, laboratorio di sviluppo
front office. guichet, n.m. sportello, finestra d’accesso
hashtag mot-dièse cancelletto, parola chiave
integrated development environment (IDE), application framework, framework. environnement de développement, atelier de développement. ambiente di sviluppo, laboratorio di sviluppo
lurker. fureteur, -euse, n. osservatore
microblog, thread. microblogue, n.m. micoblog
microblogging. microblogage, n.m. gestore
off line autonome autonomo
open space plateau ouvert spazio aperto
serial access accès séquentiel accesso sequenziale
thread, microblog. microblogue, n.m. micoblog
thumbnail. imagette, n.f. provino
troubleshooting. aide au dépannage, dépannage, n.m., traitement des incidents. assistenza tecnica, pronto intervento
web conference, e-conference, web conferencing. cyberconférence, n.f. ciberconferenza, teleconferenza

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Un film già visto

Il passaggio di poteri da Letta a Renzi mi ricorda un episodio simile verificatosi in Australia pochi anni fa.

Dopo di avere riportato al governo i laburisti , nel 2007, l’allora primo ministro Kevin Rudd fu costretto a rassegnare le dimissioni in seguito ad una rivolta interna al suo stesso partito. Poche ore dopo, il testimone passava all’ambiziosa sfidante interna, Julia Gillard. La sua permanenza in carica, tuttavia, è durata solo fino  a giugno del 2013, quando un secondo ribaltone interno al partito ha rimesso in sella Kevin Rudd. Ma per poco: alle elezioni seguite poco dopo, le urne hanno riportato al governo la coalizione conservatrice.

Evidentemente molti elettori non avevano gradito.

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