Democratici per le Buone Riforme

La Carta Costituzionale  non è un vestito che si possa cambiare ad ogni stagione.

La costituzione Usa, dalla sua approvazione, il 17.9.1787, è stata emendata 17 volte per un totale di 27 modifiche.

Per quanto concerne la legge elettorale, in 300 anni, gli Usa hanno modificato la normativa federale solo due volte: nel 1804 e nel 1961. Il sistema uninominale secco (tranne che in due stati) è rimasto sempre la norma. Inoltre, la costituzione prevede date e cadenze certe per le consultazioni, escludendo arbitrarie dissoluzioni del parlamento. Anche i  frequenti e numerosi referendum sono automaticamente accorpati con le più vicine giornate elettorali, escludendo quindi la necessità di inventarsi dei minimi di partecipazione per la loro validità.

In meno di 70 anni di vita, prima dell’ultima riforma, quella italiana è stata ritoccata 19 volte, per un totale di 39 modifiche.

L’ultima revisione, quella sottoposta a referendum, modifica 46 articoli su un totale di 139. Questo massiccio intervento può essere letto in due modi: a) o quella fino ad oggi in vigore non è proprio ‘la più bella costituzione del mondo’ come spesso si sente ripetere; b) oppure quelle apportate non sono le più belle modifiche costituzionali del mondo.

In effetti, nei suoi settant’anni scarsi di vita, la costituzione italiana si è dimostrata abbastanza solida per quanto concerne l’impostazione di massima, anche se appare innegabile l’esigenza di alcuni stabili aggiustamenti, in particolare per quanto concerne:

  1. la separazione e il bilanciamento dei poteri;
  2. la governabilità;
  3. il controllo e il contenimento della spesa pubblica, l’eliminazione degli sprechi e la lotta a corruzione e clientelismo;
  4. la conciliazione della politica con la popolazione.

 

Separazione e il bilanciamento dei poteri

La Carta in vigore (ma anche quella ultimamente emendata), ad esempio, non prevede alcuna demarcazione tra funzioni esecutive, organi legislativi e organi di controllo.

Lo stesso soggetto può fare parte contemporaneamente dell’esecutivo e del Parlamento, essere cioè controllato e controllore, senza che nessuno avverta il conflitto di tale sovrapposizione di ruoli.  In oltre può personalmente detenere un potere economico tale da influenzare pesantemente le scelte di base degli elettori.

Il Parlamento è contemporaneamente organo legislativo e organo di controllo dell’esecutivo.

Invece di dirimere tali macroscopiche incompatibilità, la riforma proposta, introduce ulteriori accentramenti di funzioni e potere in oligarchie sempre più ristrette: il contrario del concetto di democrazia inclusiva e partecipata.

 

Governabilità

La governabilità esprime l’esigenza di avere esecutivi  stabili e duraturi. A questo requisito viene associato anche il concetto di produttività del parlamento.

Soffermiamoci  sulla stabilità

Dalla loro costituzione ad oggi, gli Usa hanno avuto 45 presidenti e 45 esecutivi.

In 70 anni di repubblica, l’Italia ha avuto 27 Presidenti del consiglio e 64 governi.

La vulgata corrente è che tale instabilità sia dovuta al sistema bicamerale. A pochi viene il sospetto che si tratti invece di una naturale conseguenza della mancata separazione dei poteri tra l’esecutivo e gli altri organi istituzionali, a cominciare dall’incompatibilità tra membro del parlamento e incarico  di governo.

Tale sovrapposizione  di ruoli consente a tanti parlamentari di brigare per le cariche di ministro, utilizzando il proprio voto di fiducia nei confronti del governo quale  strumento di pressione (o ricatto)  al fine di ottenere poltrone o strapuntini: insomma a nessuno viene il sospetto che l’instabilità dei governi posa anche derivare dallo scalpitare dei parlamentari insoddisfatti.

Quando non manifestano il proprio scontento in maniera plateale (chi ha dimenticato il fenomeno dei ‘franchi tiratori’?) , questi votano/votavano controvoglia i governi, salvo cominciare immediatamente a tramare per la loro caduta.

Il fatto che la fiducia venga concessa  da una sola Camera, o da due, incide soltanto sull’ampiezza della platea dei votanti, ma non garantisce che tutti i parlamentari sappiano mettere da parte le personali  ambizioni nell’interesse della governabilità.

 

Bisogna poi aggiungere l’anomalia dei partiti. Previsti come facoltà e diritto dei cittadini dall’art. 49, i partiti  sono i veri padroni delle istituzioni. Nascono ed operano al di fuori di ogni regola, controllo e garanzia costituzionale, ma si comportano come organi istituzionali di livello superiore rispetto al Parlamento: un po’ come se nella Carta italiana ci fosse l’articolo 126 della Costituzione Sovietica (quello che garantiva al Partito Comunista il ruolo di ‘nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che di Stato’)

Tale concezione sovietica dei partiti, per altro, è stata recepita nella prassi e nei riti per la nomina degli esecutivi, oltre che nelle procedure per la formazione e presentazione delle liste elettorali: una evidente anomalia che concede ai padroni (nel caso di partiti padronali), ai signori delle tessere e ai gruppi  di controllo delle segreterie, poteri chiaramente in contrasto con lo stesso Articolo 1 (“la sovranità appartiene al popolo”). Come se ciò non bastasse, si è sviluppata, praticata e giustificata una singolare teoria sulla “disciplina di partito”, che contraddice l’esclusione dei vincoli di mandato dei parlamentari, prevista dall’art. 67.

Queste anomalie spesso hanno riversato le diatribe, le tensioni e le faide interne dei partiti sulla vita del parlamento e degli esecutivi, generando quell’ingovernabilità di cui ha sofferto la recente storia repubblicana. Cercarne altrove le cause è semplicemente deviante.

Occorre, dunque, ripensare e sistematizzare il ruolo, la democrazia interna e l’inquadramento istituzionale dei partiti.

Negli Usa, per continuare a citare uno dei due più antichi esempi di democrazia stabile, i partiti hanno solo un ruolo ausiliario nei confronti degli eletti e dei gruppi parlamentari. Istituzionalmente chi rappresenta il  partito non è il suo presidente (che non è mai un congressista o senatore in carica) , ma il portavoce del gruppo parlamentare; ed è a livello di gruppo parlamentare (ossia di eletti dal popolo) e di portavoce che si definiscono le politiche del partito. Non viceversa. Ogni ingerenza esterna è mal tollerata.

Liste elettorali. Altra caratteristica statunitense è quella delle liste elettorali.

Il voto è un diritto, ma per esercitarlo occorre fare un piccolo sacrificio: dichiarare formalmente tale volontà mediante l’iscrizione alle liste elettorali.

Questa formalità va espletata solo la prima volta, mediamente non oltre dieci giorni prima delle votazioni. Tale termine ha due valenze: una puramente organizzativa, l’altra più politica, in quanto serve ad evitare che il voto, invece di essere un gesto ponderato, venga influenzato da fattori emotivi o dagli slogan dell’ultimo istante. Un fenomeno, questo, che  in Italia si è verificato più volte, con clamorosi ribaltamenti delle previsioni di tutti gli istituti demoscopici (forse anche a seguito di massicce dosi di pubblicità più o meno occulta, o informale degli ultimi giorni da parte di chi poteva).

Le liste degli elettori – assieme a lunghe campagne elettorali che iniziano con primarie di dibattito e divulgazione,  non solo di voto-  possono costituire una mitigazione del rischio dell’improvvisazione insito nel suffragio universale automaticamente garantito. Ciò, soprattutto,  in un periodo in cui le democrazie occidentali sembrano ostaggio di minoranze incerte o indecise, spesso anche disinformate, o che giocano a dadi, spostando in un verso o nell’altro l’esito delle consultazioni.

Obbligati ad esprimersi da leggi elettorali che negano dignità all’astensione responsabile (salvo  poi premiarla e rafforzarne il peso nelle consultazioni referendarie con quoziente di partecipazione minimo), il voto degli incerti  e dei disinteressati alla politica finisce col pesare sulle scelte d’un paese notevolmente di più di quello degli elettori responsabili e informati.

Attualmente in Europa l’obbligo di voto esiste solo in Italia, Belgio, Cipro, Grecia e  Lussemburgo. Vige anche in Australia, dove l’astensione ingiustificata viene punita con un’ammenda. Non sembra, però, che il dovere di votare abbia sempre agevolato la governabilità (vedi Belgio e Italia) o la formazione di maggioranze forti (vedi Australia).

 

Il sistema elettorale

Il sistema elettorale più longevo del mondo è quello basato su collegi territoriali uninominali.

Contrapposto a questo c’è il sistema proporzionale, con collegi più ampi, che è quello che più si avvicina al concetto di rappresentatività  statistica del corpo elettorale.

Il sistema uninominale normalmente garantisce più governabilità, e  soprattutto crea un rapporto diretto e stretto tra elettori ed istituzioni; tuttavia, penalizza i movimenti minoritari e le idee innovative.

Un modo per correggere la minore democraticità dei sistemi uninominali viene offerto dai sistemi elettorali più avanzati come il voto alternativo, il voto alternativo all’australiana o il sistema del voto di valore.

Il voto alternativo semplice, consiste nell’esprimere due voti: uno per il candidato più gradito, e uno per quello meno sgradito. Se nessun candidato raggiunge la maggioranza, i voti primari vengano sommati a quelli secondari e viene scelto quello che oltre a riscuotere più consensi è anche oggetto di minori dissensi.

Insomma, una specie di doppio turno (sistema francese) in unica votazione, ma senza restringere la seconda scelta solo ai due candidati più votati.

Il doppio turno francese, in effetti, oltre ad essere più lungo e doppiamente costoso, non ha riscosso molto successo nel resto del mondo. Il voto alternativo, invece, consente di sapere chi ha vinto e chi ha perso la stessa sera delle elezioni, senza dovere aspettare ancora due o tre settimane per il ballottaggio, non limita la seconda scelta e non da luogo a quel mercato di vacche che caratterizza le elezioni francesi per guadagnare  l’appoggio dei candidati bocciati.

Il voto alternativo all’australiana, che in un certo senso comprende anche una forma graduata di voto negativo, consiste nell’esprimere l’ordine di preferenza per ciascuno dei candidati del collegio, dal più gradito a quello più detestato. Gli scrutini, tuttavia, sono più complessi e a volte possono richiedere giorni. Infatti, se nessun candidato, raggiunge la maggioranza dei consensi (cioè, è stato votato come il primo più gradito dal 50% più uno), si passa a calcolare anche i voti di seconda preferenza; se neanche in questo modo nessun candidato supera la maggioranza assoluta, si rende necessario computare anche i voti di terza preferenza e così via, fino a trovare il candidato che raggiunga la maggioranza assoluta.

Nel 2002 il partito laburista britannico ha promosso un referendum per sostituire il maggioritario secco con questo sistema, ma gli elettori lo hanno bocciato.

Negli Stati Uniti, questo sistema viene indicato col termine ‘voto con sistema a graduatoria’ e viene già utilizzato per le comunali in una decina di grandi città (ad esempio Portland). Tra i suoi più autorevoli sostenitori c’è Barack Obama, John McCain (rep), Bernie Sanders (dem) e Howard Dean (dem). Dean, inoltre, ritiene che il voto alternativo sia particolarmente adatto nelle situazioni di multipolarismo.

Nello stato del Maine la sua estensione a qualsiasi tipo di elezione politica è oggetto di un referendum statale che si svolgerà contemporaneamente alle prossime elezioni presidenziali.

 

 

Col voto di valore, infine, l’elettore attribuisce a ciascun candidato un voto (come quello scolastico, mettiamo, da uno a dieci). Viene eletto quello con il voto medio più elevato.

 

Il sistema proporzionale assicura più democrazia. Spesso, però, è ostaggio dei partiti e dei Signori delle Liste; inoltre,  i suoi costi, notevolmente più elevati, a volte costituiscono un alibi morale per la corruzione.

Il voto singolo trasferibile, è un adattamento del voto alternativo al sistema proporzionale con preferenze. Infatti permette all’elettore di assegnare più di una preferenza, nell’ambito della lista scelta,  numerando i vari candidati sulla scheda elettorale.

Il sistema è usato a livello nazionale nella Repubblica d’Irlanda, a Malta e per l’elezione del senato australiano. A livello regionale e locale è usato per l’assemblea regionale dell’Irlanda del Nord, le aree amministrative della Scozia ed alcune amministrazioni regionali di Australia e Nuova Zelanda. È stato usato anche negli Stati Uniti per le elezioni del 2006 in almeno dieci grandi città e contee. Una sua variante è stata adottata per l’elezione del sindaco di Londra.

 

Scelta e presentazione dei candidati

La presentazione delle candidature spesso offre il fianco a forme di coartazione e violenza della democrazia.

Negli Stati Uniti, la selezione e la presentazione dei candidati normalmente avvengono secondo il sistema delle primarie o dei caucus: entrambi rigidamente regolati da leggi  statali. Le elezioni primarie, in oltre,  non consistono tanto in una mera consultazione d’un giorno,  quanto in un processo selettivo che dura parecchi  mesi. L’obiettivo è consentire agli aspiranti candidati di farsi conoscere e apprezzare. La scelta finale deriva dalla somma dei voti di quanti, nei vari appuntamenti locali, hanno avuto modo di valutare le idee e le proposte dei concorrenti. Solo in questo modo la classe dirigente può costantemente rinnovarsi.

Non è esclusa, tuttavia, la presentazione di candidati indipendenti.

Nella storia repubblicana italiana, le candidature sono state quasi sempre monopolio delle segreterie di partito. Pensare che questo sistema sia estraneo all’instabilità dei governi passati sarebbe mera finzione. Insistere su questa strada, puro manicheismo.

Una legge elettorale, dunque, non può prescindere, oltre che da un obbligo di garanzie democratiche certe sulle cadenze elettorali e sul funzionamento dei partiti, da precise norme sull’obbligatorietà e il funzionamento delle elezioni primarie.

In alternativa si potrebbe togliere ai partiti il monopolio della presentazione delle liste. Chi intende candidarsi si presenta da solo e, se vuole, indica a quale gruppo parlamentare si iscriverà una volta eletto.  Si potrebbero avere più candidati che dichiarano di ispirarsi allo stesso partito: le segreterie dei partiti potranno fare campagna per l’uno o per l’altro, ma sarà sempre il cittadino a scegliere.

E il logo dei partiti? Nei paesi più avanzati, il logo non viene più usato: è solo un retaggio dei tempi in cui il tasso di analfabetismo era elevato.

In Italia, purtroppo, ancora non abbiamo metabolizzato una vera tradizione di primarie. Le prime celebrate in tutto il paese, nel 2005,  sono state prevalentemente  una manifestazione di legittimazione. Successivamente il termine è stato mal utilizzato e, soprattutto, mal realizzato, estendendo il termine fino ad assumere il significato di elezioni aperte anche a non iscritti al partito che le proponeva per le sue cariche interne.

 

Per quanto concerne la produttività delle Camere, come prima cosa bisogna sottolineare la commistione di compiti e funzioni del bicameralismo perfetto (per altro solo parzialmente risolto, quando non aggravato dall’ultima riforma).

A parte il ruolo dell’esecutivo (che esegue, e che a questo deve limitarsi), il principio della  separazione dei poteri deve essere applicato anche alle funzioni legislativa e di controllo, attualmente esercitate pariteticamente  da entrambi i rami del Parlamento.

Una delle cause di tale commistione probabilmente  è dovuta all’ambiguità del termine ‘legge’. Questa dizione, infatti,  ingloba concetti diversi ed eterogenei. Si definisce legge, per esempio, la norma che vieta o autorizza l’aborto o l’eutanasia, così come si definiscono leggi quelle sul bilancio dello stato, sui cani randagi o la pesca delle arselle.

Che una certa differenza ci sia, lo comprende chiunque. Né occorre per forza cambiare il vocabolario per sottolineare che esiste Legge e legge.

La Costituzione vigente e quella modificata non affrontano minimamente questo aspetto.

 

Una o due camere?

Inizialmente la costituzione statunitense prevedeva una sola camera. I risultati furono a dir poco disastrosi e gli stessi padri costituenti corsero subito ai ripari, passando ad un sistema di bicameralismo perfetto che nessuno ha mai pensato di cambiare.

La principale differenza col bicameralismo italiano (oltre al fatto che i senatori e i congressisti Usa non possono far parte dell’esecutivo, mentre gli italiani possono),  è la mancanza del cosiddetto ping-pong, o navetta delle leggi.  Se la Camera che si occupa di un disegno di legge per seconda introduce modifiche al testo approvato dall’altro ramo del Parlamento, non si verificano rimandi e nuove letture, ma si procede all’istituzione di una camera di conciliazione.

 

Semplificazione e produttività

Per chi voglia mantenere un sistema di bicameralismo perfetto, quella americana è una soluzione semplice ed efficace.

Chi, invece, pensa che nell’era digitale si possa osare qualcosa di più, e magari sogna una democrazia internettizzata, per ora potrebbe contentarsi d’una semplice diversificazione delle materie tra Camera e Senato che rispecchi meglio quella separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu:

  1. da un lato una Camera che dà la fiducia all’esecutivo, ne controlla l’operato e legifera in materia di spesa e organizzazione dello Stato;
  2. dall’altro un Senato che si occupa solo ed esclusivamente delle Leggi etiche (o non di spesa).
  3. Eventuali interventi comuni sulla stessa materia, potrebbero verificarsi solo qualora la pratica attuazione di una Legge Etica comporti un qualche onere per lo stato (caso non del tutto infrequente); oppure se, ipotesi più rara, una misura amministrativa o di organizzazione dello stato possa incidere su qualche principio etico: in ogni caso, il coinvolgimento dell’altro ramo del parlamento sarà sempre limitato all’aspetto di propria competenza.

 

 

Controllo e contenimento della spesa pubblica

Uno dei leitmotif dei fautori dell’ultima riforma è la riduzione dei costi della politica.

In effetti, le economie vantate, avrebbero potuto essere ottenute in parecchi altri modi; ad esempio riducendo contemporaneamente il numero dei deputati. Tuttavia si sarebbe trattato sempre di economie frizionali, esclusivamente simboliche e che non vanno certamente nella direzione di una maggiore inclusività, partecipazione e avvicinamento tra istituzioni e popolazione: al contrario sembrano tendere verso un crescente elitarismo ed accentramento del potere. Il restringimento del ‘campione rappresentativo della popolazione’, quale dovrebbe essere il Parlamento, va a scapito della sua rappresentatività anche nel senso statistico del termine.

Non v’è dubbio, invece, che il contenimento dei costi dello stato sia quanto mai improrogabile, e la sequela di commissari alla revisione della spesa (quando questi non sono stati nominati per motivi di mera  comunicazione o propaganda) ne testimonia l’urgenza.

Le economie realizzabili dalla messa in atto delle proposte dei vari commissari, tuttavia vengono  sistematicamente vanificate da nuove spese, non sempre urgenti o prioritarie, né giustificate, sicché il fabbisogno dello stato è l’unico dato economico di questo paese in inesorabile e incontenibile crescita.

Sul piano delle riforme, una proposta ribadita da tutti i commissari era l’abolizione delle provincie e l’accorpamento dei piccoli comuni. Per quanto concerne le prime, ne verrebbero abolite solo alcune: quelle più grandi (pari al 38% della popolazione) sopravvivono sotto la più pomposa dizione di città metropolitane.

Le economie conseguenti l’abolizione delle provincie -nella misura in cui ci siano effettivamente- sono dunque a macchia di leopardo.

Commissari alla revisione della spesa a parte, tuttavia, quando si compara la composizione  della spesa pubblica nei vari paesi, un dato balza immediatamente agli occhi: l’eccessivo costo degli organismi locali italiani. Rispetto alla Germania, per esempio, la nostra democrazia locale costa quasi 5 punti di pil in più. È  in questa direzione, dunque, che bisogna agire.

Una soluzione potrebbe consistere nell’abolizione del sistema dei comuni e il passaggio a quello delle contee: unità territoriali non più piccole di un collegio elettorale e con i poteri degli attuali comuni e delle provincie abolite a da abolire.

 

Decentramento e centralizzazione

Dopo decenni di ubriacatura regionalistica (la cosiddetta devoluzione), il pendolo della politica italiana è tornato ad oscillare nel campo della centralizzazione.

La modifica dell’articolo quinto della costituzione dovrebbe essere da monito soprattutto per quanti la propugnano: le costituzioni non sono vestiti da cambiare a seconda che piova o splenda il sole. Né tanto meno a seconda delle convenienze elettorali.

La revisione decentralizzatrice del 2001 è stata un errore, non  tanto perché fossero sbagliati i principi fondamentali ai quali si ispirava, quanto perché varata prevalentemente con ottica elettoralistica e senza un consenso largo e trasversale. Ed  è allo stesso modo un errore, oggi, volere fare passare modifiche  inorganiche e incoerenti, prevalentemente sostenute (o avversate) da mutevoli convenienze di parte, e prive d’una visione strategica profonda e di lungo periodo.

Per quando concerne il merito della proposta di ritorno ad un sistema centralizzato di materie come la sanità, il turismo o l’agricoltura, rincresce che la formulazione del quesito referendario, da parte dei proponenti, sia stata fatta in modo generico e omnicomprensivo: con un maggior senso di democrazia e/o di previdenza (o con minore arroganza e/o malizia  elettorale, o con quella più profonda riflessione che si richiede ad un buon leader prima di ogni iniziativa), sarebbe stato meglio formulare tante diverse richieste di referendum in modo da consentire agli elettori più critici di non dover necessariamente gettare il bambino assieme all’acqua sporca. Ma così non è stato.

 

Conciliazione della politica con la popolazione

La disaffezione dei cittadini nei confronti della politica è sotto gli occhi di tutti. Le cause sono molteplici, ma una prevale su tutte: i politici tendono a diventare delle caste chiuse, lontane e insensibili alle priorità della popolazione.

L’elettore rimprovera ai politici soprattutto due cose: il prevalere dell’interesse privato su quello generale  e la trasformazione del servizio pubblico in fonte di privilegi e tornaconti personali.

 

Conflitto d’interesse

Probabilmente l’Italia non ha bisogno di nuove leggi su questa materia. Alcune norme esistono già, ma per decenni sono rimaste lettera morta. Una sistematizzazione e attualizzazione delle stesse, comunque, è opportuna.

In particolare, occorre modernizzare la normativa sulla conflittualità tra i vari tipi di potere, considerando anche quelli non istituzionali, come l’influenza sui mezzi di comunicazione, il potere economico degli azionisti e dei dirigenti delle grandi imprese (sia private che pubbliche), e regolamentare meglio il passaggio da tali posizioni  ai ruoli elettivi.

 

Durata e numero dei mandati

Un’attenta osservazione sulle politiche dei presidenti degli Stati Uniti (che potrebbe valere anche per i sindaci italiani), evidenzia come, dove esistono limiti costituzionali o consuetudinari al numero dei mandati,  generalmente gli eletti danno il meglio (il peggio) di sé nell’ultimo periodo  non rinnovabile.

Fintantoché pende sul loro capo la spada di Damocle della rielezione, gli eletti spesso sono prigionieri  di tatticismi, ambiguità e furbizie, per non parlare d’una maggiore esposizione  alle tentazioni corruttive (a causa del non trascurabile costo delle campagne elettorali).

La conseguenza di queste osservazioni non può che essere una: l’ottimizzazione del mandato elettorale richiede che questo sia uno solo e non più rinnovabile. Bisogna evitare che la politica diventi mestiere: un fenomeno molto frequente in particolare quando l’excursus politico comincia in giovane età, senza che si abbia ancora maturata una propria professionalità.

Nelle grandi imprese, di norma, un incarico di vertice non si protrae mai oltre i cinque-sei anni. Si ritiene, infatti, che trascorso tale periodo il dirigente tenda a routinizzarsi e non possa dare più il meglio di sé: deve cambiare mestiere e, spesso, anche azienda e settore merceologico per rigenerare.

Non c’è nessuna ragione perché nel pubblico non si faccia lo stesso, tranne il fatto che ad esserci dentro ci si prende troppo gusto, e fuori del Palazzo molti politici non saprebbero più cosa fare.

Una soluzione ragionevole (che compensa anche il non sempre breve periodo di apprendistato, prima di entrare negli ingranaggi del potere) potrebbe consistere nell’allungamento dei mandati a sei-sette anni.

 

 

Il referendum

La riscrittura costituzionale voluta dal Governo, comunque,  ha due grandi meriti:

  • L’avere ribadito che le riforme non possono essere solo argomento per dibattiti più o meno colti, e che alla fine bisogna decidersi a farne una. Non possiamo morire come l’asino di Buridano, nell’incapacità di deciderci.
  • L’avere rotto il tabù della devoluzione (che i fautori chiamavano all’inglese, pensando così di dargli più autorevolezza ed efficacia).

L’agire a qualsiasi costo, tuttavia, non è sempre una scelta prudente. Con questo ragionamento sarebbe stato meglio non respingere la riforma costituzionale del 2005/2006: avremmo guadagnato dieci anni.

Una cattiva medicina non è affatto meglio di nessuna medicina:  non garantisce la guarigione, quando non aggrava le condizioni più di quanto possa fare il decorso non curato della malattia: piuttosto che una medicina sbagliata, meglio affidarsi alle difese naturali dell’organismo

In quanto alla devoluzione, non si può notare una certa contraddittorietà tra ritorno al centralismo o all’unitarismo, e il non sapere trovare soluzioni alternative al tormentone del cosiddetto  senato federale: fintantoché i collegi elettorali rimangono ancorati al territorio, parlare di senato federale costituisce un sottolineatura  puramente demagogica.

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