Migrazioni e terrorismo: due conseguenze dello stesso problema

L’immigrazione è all’ordine del giorno da quasi un decennio e per almeno altri dieci anni continuerà ad occupare le prime pagine dei quotidiani.

Se ne parla soprattutto il termini di cronaca o per trovare sistemi per contrastarla, ma non si leggono molti articoli che cerchino di analizzarne anatomicamente le radici e le sue principali sfaccettature. Ed è la cronaca, quella più contingente, legata agli eventi bellici di talune regioni, e che si vuole distinguere dalla più generale ondata immigratoria di natura economica, che obbliga ad un’anamnesi del fenomeno in grado di generare una diagnosi non viziata dall’emotività, al fine di identificare una coerente linea terapica.

Sebbene l’emozione dell’opinione pubblica sia maggiorente rivolta verso la situazione di chi fugge da situazioni di guerra, pertanto, occorre fare un passo indietro ed analizzare con onestà intellettuale le cause di fondo dell’immigrazione, che sono direttamente legate all’impari distribuzione della ricchezza tra il Nord e il Sud del mondo.

Da quando si è esaurita (per il fallimento economico dei paesi autodefiniti socialisti) l’antitesi politico-economica Est-Ovest, la dicotomia Nord-Sud, intesa quale contrapposizione tra il mondo di chi ha e quello di chi non ha, è emersa ad andate come uno dei principali problemi dell’attuale periodo storico. Tale contrapposizione, tuttavia, è rimasta più oggetto di erudite disquisizioni e saggi di geopolitica, che argomento di discussione e iniziativa all’ordine del giorno degli incontri dei potenti di turno.

L’avere rilegato tale tematica nei circoli culturali più lungimiranti è probabilmente la causa prima di molti di quei problemi che in questi decenni stanno assillando la società umana, a cominciare appunto dell’esodo migratorio sud-nord e dal fenomeno – come vedremo- ad esso legato, del terrorismo.

L’abbondono del problema all’iniziativa dei singoli stati e/o, peggio, alle forze incontrollate della società spontanea, ha provocato nel Sud del mondo una serie di azioni e reazioni che possiamo categorizzare secondo due diversi filoni:

  1. iniziative governative dei paesi in via di sviluppo o a sviluppo avanzato (i cosiddetti BRICS), o che controllano le risorse di cui sono avide le nazioni ricche, paesi Opec in testa;
  2. iniziative spontanee delle popolazioni economicamente più arretrate o politicamente inerti.

 

Il loro comune denominatore è la spinta a contendere quote di risorse consumabili alle economie opulente.

 

Attivismo istituzionale

 

Trasformando il controllo dei cambi da strumento di sfruttamento da parte dei paesi ricchi in arma di lotta economica, alcuni paesi con in testa la Cina e, in qualche misura, ma solo temporaneamente, quelli dell’Europa ex-socialista, hanno fatto leva sulle leggi del mercato per invadere l’Occidente con prodotti forse poco sofisticati, ma a prezzi molto competitivi. Ne è derivato un forte indebolimento del settore manifatturiero dei paesi avanzati che ha messo in crisi le economie delle nazioni meno preparate ad affrontare la competizione internazionale sul piano dell’innovazione e della qualità, anziché su quello dei prezzi.

 

Questo fenomeno ha causato lo spostamento di considerevoli masse di denaro verso alcuni paesi emergenti. Tuttavia solo il governo cinese (l’unico che conserva il controllo completo di quasi tre quarti della propria economia) ha potuto utilizzare tale afflusso di mezzi di pagamento in maniera strategica. Tale manovra non ha potuto essere utilizzata dagli altri paesi BRICS per via della frammentazione privatistica del sistema produttivo e del conseguenziale e contemporaneo illecito deflusso dei capitali verso i paradisi fiscali.

 

Altri paesi, favoriti dalla distribuzione geo-fisica delle risorse (mi riferisco in particolare al regno e agli emirati arabi) hanno impostato la propria strategia di contrapposizione alle ricche nazioni dell’emisfero Nord in maniera meno evidente, ma più sofisticata ed efficace: il denaro dell’Occidente, infatti ha continuato a riversarsi nelle loro casse allo stesso ritmo con cui dai pozzi fuoriusciva il flusso di greggio; a questi governi incombeva il solo compito di amministrarlo

  1. per soddisfare i più sfrenati bisogni di consumo interno,
  2. per investimenti in vista dell’esaurimento dei pozzi e/o della crescita delle risorse energetiche alternative a quelle fossili,
  3. ma, soprattutto, per operare una singolare emigrazione di ritorno dei petrodollari verso i paesi sviluppati dai quali erano arrivati, in cambio di una inversa emigrazione del potere di controllo su molti grandi imprese multinazionali o sulle proprietà immobiliari dei centri storici delle grandi capitali.

 

Iniziative spontanee: l’integrazione

 

Là dove sono mancate politiche governative adeguate (a livello statale e, soprattutto, internazionali) le popolazioni di numerosi altri paesi arretrati hanno sviluppato due forme di reazione spontanea all’iniqua distribuzione delle risorse consumate: il sottomesso anelito all’integrazione o la rabbiosa contrapposizione.

 

Larghe fasce dell’umanità più sfavorita hanno cominciato ad invitarsi alla mensa dei paesi più ricchi, scegliendo la via dell’integrazione attraverso l’antico strumento dell’emigrazione. Tutta la storia della Specie, del resto, è contrassegnata dal fenomeno migratorio e , come per certi uccelli, forse un giorno si scoprirà che nel DNA umano esiste un gene che lo porta incessantemente alla ricerca di nuove terre promesse.

Quando l’umanità, appena scesa dagli alberi dell’altipiano etiopico (o del sud africano) , cominciò la colonizzazione del pianeta, tutta la storia è stata contrassegnata da più o meno epocali spostamenti verso terre (ritenute) più fertili o meno affollate. Inutile scendere nei dettagli.

E anche oggi, del resto, il recente fenomeno del turismo di massa può essere considerato come una non episodica emergenza d’una ancestrale spinta verso l’esplorazione di terre sconosciute o di diverse sedentarizzazioni: più ci si radica in una città e condizione, e più forte si avverte il bisogno di temporanee emigrazioni verso terre meravigliose di cui si conserva il ricordo fino alla seguente vacanza, come di uno dei periodi più gratificanti e gratificati dell’anno.

 

Tra molte popolazioni al disotto della soglia di sussistenza, l’individuale integrazione all’interno delle nazioni opulente oggi è forse la prima e più grande aspirazione.

Tale spinta, per altro, non potrà che crescere ulteriormente col divaricarsi della forbice distributiva, anche a fronte dei possibili ulteriori impoverimenti dei paesi di provenienza per le deteriorate o deteriorabili condizioni politiche e climatiche. A meno che non si intervenga in questi stessi paesi con apposite politiche dell’ONU.

 

La contrapposizione

 

In questo quadro assume particolare importanza la reazione di taluni gruppi che in occidente siamo abituare a definire “estremisti”.

 

Il loro ragionamento merita una particolare attenzione.

 

Normalmente partono dall’evidente e incontestabile constatazione della diseguale distribuzione delle risorse consumate, rilevando come i maggiori livelli di benessere e ricchezza si concentrino nell’emisfero Nord del mondo. Rilevano poi come tale geografia distributiva coincida con la geografia religiosa del pianeta.

Da tali semplici constatazioni stabiliscono una quasi lapalissiana transitività delle equazioni

Paesi Ricchi = Paesi Cristiani

Paesi Poveri (e sfruttati dai ricchi) = Paesi Islamici

 

Da qui la contrapposizione economica Nord-Sud si connota di una valenza religiosa quale conflitto tra Paesi Islamici e Paesi Infedeli, ovunque questi si trovino (da cui, ad esempio, i conati di lotta di alcuni gruppi uiguri, maggioritariamente islamici, contro il governo centrale cinese, ovviamente infedele).

 

Un aspetto interessante di tale radicalizzazione è non solo l’ovvia chiamata alle armi degli Islamici contro gli Infedeli, ma l’ancor più accesa (e spesso sanguinosa) rivalità tra Fedeli che propugnano tale lotta ed i correligionari che non la condividono.

 

Chiaramente il grado di strumentalizzazione della religione è al massimo; tuttavia in molte aree cosiddette di crisi questi richiami stanno funzionando e alimentano la mobilitazione contro gli infedeli sfruttatori fino a fornire la base ideologica e nobilitante del terrorismo. Che non è un fenomeno nuovo, dato che il primo “terrorista” della storia lo ritroviamo in quel Sansone biblico che provocò la morte propria e di tutti i maggiorenti filistei, facendo crollare le colonne della costruzione dove si trovava in condizioni di cattività.

 

Per tornare al nostro tema principale, il terrorismo va considerato come una specie di rovescio della medaglia dell’emigrazione e una delle tante sfaccettature del poliedro dell’iniqua distribuzione della ricchezza.

 

È l’intero problema della distribuzione della ricchezza, dunque, che va affrontato se vogliamo risolverne una qualsiasi delle sue problematiche faccettature. Tentare scorciatoie o soluzioni diverse è antistorico e non può che aggravare la situazione.

 

Profughi di guerra e di fame

 

La crisi migratoria ha fatto affiorare la parte peggiore e quella migliore della vecchia Europa. La pubblicazione di immagine drammatiche da parte dei media ha suscitato una forte ondata di emozione, cui fa da contraltare il cinismo di taluni governi e politicanti populisti.

 

Inutilmente la parte più lungimirante dell’Unione ha cercato di risvegliare negli altri i più elementari sentimenti d’umanità, facendo leva sulle immagini più tragiche dei profughi di guerra. In effetti la distinzione tra questi e gli immigrati economici è labile e non ha un senso reale, se non per la maggiore impellenza e gli ormai sbiaditi ricordi che alcuni europei conservano dell’ultima grande guerra.

 

Fuggire dal rischio di morte cruenta per bombe non è granché differente dal fuggire dal rischio d’una morte più lenta per fame: cambia solo l’urgenza, ma non tanto.

 

Nello specifico, poi, gli esuli siriani e afgani in buona parte sono anche la conseguenza delle politiche di intervento e di non intervento adottate nel recente passato dai governi del Nord del mondo (occidentali e orientali), nei confronti di questi paesi. Anche l’andamento climatico, con le recenti eccezionali siccità nell’area siriana e irakena, può avere avuto un ruolo importante, favorendo prima delle forti ondate di urbanizzazione e successivamente la fuga dalle città bombardate. C’è poi il caso intermedio del Sudan del Sud e dell’Eritrea, che guai a toccarli senza suscitare le ire o le preoccupazioni di alcuni paesi che contano (leggi Russia e Cina), perché si infrangerebbe il tabù della non ingerenza.

 

Alcuni governanti poco avvezzi allo studio della storia pensano di potere risolvere il problema ergendo muri, tagliando ponti e sfornando decreti. Ci avevano provato i romani un millennio e mezzo fa (in Gran Bretagna e nei confronti dei cosiddetti barbari) e a più riprese innumerevoli potentati cinesi nei confronti delle popolazioni nomadi di frontiera. Ma sempre con risultati scarsi, se non nulli, ed aleatori.

In un mondo che si fa sempre più piccolo, è difficile che ci riescano oggi.

Siamo in un’era in cui le merci sono praticamente libere di circolare in tutto il pianeta, salvo il pagamento di qualche dogana, e difficilmente si potrà contrastare a lungo la libera circolazione delle persone. Piaccia o non piaccia, un mondo senza confini e senza passaporti non è solo auspicabile, ma costituisce una tappa storicamente inevitabile.

I colloqui in corso per un mercato comune transatlantico e per un’analoga comunità dei paesi che si affacciano sul Pacifico, con tutti i limiti e i problemi connessi con le metodologie di negoziazione, vanno in questa direzione.

 

Aiutarli a casa loro

 

Per quanto riguarda gli immigrati economici, hanno certamente ragione coloro che onestamente ritengono che l’aiuto debba iniziare a casa loro. Non so, però, se i sostenitori di questa tesi si rendano perfettamente conto di cosa ciò comporti. Non si tratta, infatti, di mandare un po’ di noccioline e vestiti usati, per mettere in pace la coscienza.

Per aiutarli veramente a casa loro, occorre risolvere la causa prima del fenomeno migratorio, ossia quello squilibrio nella distribuzione delle risorse dal quale siamo partiti. Soprattutto bisogna accantonare la diffusa illusione che le crisi occupazionali e di PIL di alcuni paesi occidentali possano essere risolte con politiche di sostegno ai consumi interni: è come volere combattere la droga somministrandone ulteriori dosi; si avrà un temporaneo sollievo alle sofferenze dell’astinenza, ma nessun vantaggio duraturo, se non un ulteriore aggravamento.

I cittadini dei paesi opulenti dobbiamo rassegnarci a consumare di meno e a dare di più (ossia quote maggiori del nostro lavoro) negli scambi col terzo mondo: un processo che il mercato ha già avviato, con i suoi tempi lunghi e molte vittime collaterali. Per evitare queste ultime, occorrerebbe che i governi prendessero la guida di tale tendenza, ma nessun politicante avido di voti (e sordo alla storia) è disposto a fare propria questa ricetta. E, comunque, di tratta di un discorso notevolmente più vasto che in questa sede può essere solo citato.

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