Totem e tabù

Articolo 18 sì, articolo 18 no. L’Italia politica e sindacale è galvanizzata da anni attorno a questo problema.

Per i fautori, si tratta d’un irrinunciabile valore di civiltà. Per i detrattori è il più grande ostacolo agli investimenti esteri, all’occupazione e, in una parola che tocca le sensibilità di tutti, alla ripresa economica.

Non voglio entrare nel merito, anche se in proposito anch’io potrei avere la mia da dire. Preferisco fare solo alcune osservazioni più micro-economiche.

La ragione per cui un operatore effettua un investimento sono varie, ma possiamo ricondurle a quattro o cinque tipologie.

In primo luogo dobbiamo distinguere tra le differenti figure d’investitore: l’operatore finanziario e l’imprenditore vero e proprio. Il primo decide i propri investimenti (normalmente sotto la forma di acquisizioni o di partecipazione societarie) solo ed esclusivamente in funzioni delle attese di redditività. Se nel loro complesso queste lo soddisfano, il finanziatore investe senza preoccuparsi troppo dei dettagli al contorno. Al limite, l’articolo diciotto potrà incidere come una variabile di maggiore o minore costo.

L’imprenditore industriale (inglobando in questa figura anche chi opera nel terziario) investe prevalentemente per due ragioni:

  1. perché ha un’idea di prodotto che vuole assolutamente realizzare;
  2. perché la domanda di mercato del suo prodotto ha superato o si prevede che possa superare la sua attuale capacità produttiva;
  3. perché vuole entrare in un nuovo mercato e, fatti tutti i suoi conti, ritiene che la strada migliore per garantirsene una fetta richieda un impianto produttivo in loco.

Se occorre una di queste condizioni, l’operatore comincerà a elaborare il suo piano di affari propedeutico all’investimento.

Qualora l’impianto sia destinato a servire un mercato multinazionale, tra le variabili del piano figureranno anche valutazioni d’ambiente, come la rete di comunicazioni, le politiche incentivali di taluni stati, il regime fiscale, la disponibilità di manodopera specializzata e così via. In questa fase potrebbe essere presa in considerazione la legislazione sul lavoro con l’eventuale presenza d’un articolo diciotto, come anche la lentezza o la celerità della giustizia, l’eliminazione delle rendite parassitarie derivanti da situazioni monopolistiche garantite dalle leggi, la qualità e duttilità del sistema scolastico e dell’istruzione tecnica: insomma, per usare una terminologia alla Frederick Herzberg, i “fattori d’igiene” che possono interferire col successo dell’impresa.

I guaio è che il mondo politico spesso confonde tra terapie e fattori d’igiene. Questi ultimi non curano le malattie: servono solo a prevenirle o a evitare che una cura azzeccata sia compromessa o depotenziata da condizioni igieniche inadeguate.

La sterilizzazione di una sala operatoria, per fare un esempio classico, è un fattore d’igiene: non serve a curare l’ammalato, ma a evitare che un intervento ben fatto sia compromesso da sepsi con conseguenze anche letali per il paziente.

In politica e in economia, la situazione non è diversa. Le normative sul lavoro, il funzionamento della giustizia civile e penale, la sburocratizzazione sono fattori d’igiene; non servono a sviluppare l’economia, ma costituiscono il presupposto sine qua non per la sua vitalità. I fattori di cura, invece, sono quelli atti a stimolare direttamente l’evoluzione, a cominciare dalla disponibilità di sufficienti capitali di rischio a favore per chi ha buone idee. Perché ciò che blocca l’economia italiana è proprio questo: coloro che hanno le idee non dispongono di capitali, mentre coloro che controllano i capitali sono a corto d’idee. E preferiscono nascondere i propri limiti dietro il paravento di sterili diatribe sull’articolo diciotto.

 

P. S.  Chiedo scusa a Freud per essermi appropriato del titolo d’una sua opera.

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