LinguaMadre

L’italiano invaso da 9mila anglicismi

Nel 2000 in tutto il mondo si parlavano circa 6.700 lingue. Oggi dovrebbero essere un centinaio meno, se è vero, come sostiene l’Unesco, che ne muore una ogni due settimane. Il 60% delle lingue sono parlate da meno del 4% della popolazione mondiale e sono a rischio di estinzione. L’italiano, per nostra fortuna, non fa parte di questo gruppo, ma a volte si ha la sensazione che stiamo facendo di tutto per fare perdere alla nostra lingua quella massa critica che le impedisce di collassare nel giro di pochi decenni.

La maggior parte delle lingue muore insieme alle comunità che le parlano. Nel caso dell’italiano, invece, il rischio è la permeazione, l’annacquamento, come un buon vino che diventa acqua e in essa si annulla a furia di allungarlo.

Nuovi anglicismi, ogni anno, entrano nella nostra lingua; alcune per arricchirla a fronte di prodotti prima inesistenti, altri semplicemente per sostituire termini comuni non più alla moda.

In totale le voci del Dizionario delle parole straniere di Tullio De Mauro sono 10.650, inglesi nell’82,5% dei casi. “Poca cosa”, assicura il professor De Mauro, per il quale 8.800 parole inglesi non rappresentano un rischio.

Non la pensava così, invece, Arrigo Castellani, scomparso lo scorso giugno, il quale già in un saggio del 1987 manifestava una seria preoccupazione per lo stato di salute della nostra lingua.

Affermare che quasi 9.000 anglicismi non costituiscano un pericolo ha senso e non ha senso. Dal punto di vista statistico, indubbiamente, su un corpus di 800.000 tra lemmi ed accezioni, quanti ne registra il dizionario della Treccani, rappresentano una percentuale sopportabile. Ma, se li riferiamo ad un universo più ristretto possono destare delle preoccupazioni. L’italiano medio, ad esempio, non usa più di 2.000 parole, per cui quello che bisognerebbe vedere è quanti di tali anglicismi sono o stiano per entrare nel linguaggio quotidiano.

Alcuni anni fa, con alcuni collaboratori d’una mia rivista d’informatica, ho lavorato a costruire un dizionario di correzione ortografica per gli utenti del sistema operativo libero Linux. Per frullare le parole necessarie abbiamo messo in un computer tutti gli articoli pubblicati in anno dal Corriere della Sera e da tre grandi settimanali disponibili in rete, oltre ad un migliaio di libri variamente assortiti. Ne è venuto fuori, fra l’altro, che il vocabolario usato dalle quattro testate prese in considerazione era di circa 6.000 parole, di cui 1.400 verbi. Purtroppo allora non ho pensato di conteggiare gli anglicismi.

Ma è in rapporto a queste 6.000 parole che gli 8.800 termini inglesi potrebbero essere preoccupanti.

Non potendo ripetere l’operazione fatta alcuni anni fa (che ha impegnato per un bel po’ di mesi un paio di persone), ultimamente ho provato a contare le parole inglesi presenti nei titoli del Corriere e nelle pubblicità tv di prima serata. Nulla di scientifico. Ma i risultati possono rappresentare un’indicazione.

Su una media quotidiana di 150 titoli, 11 contenevano almeno un termine inglese. Il rapporto però saliva a 4 su 18 nelle pagine degli spettacoli. Con gli applausi, ad esempio, che diventano regolarmente “ovation” e debbono essere necessariamente “standing”, anche se gli spettatori sono quattro gatti e rimangono comodamente stravaccati nelle loro poltrone. (Chissà se i colleghi che non sanno resistere all’impellenza di aggregarsi a queste mode ricordano che “ovation” viene dagli ovini che gli antichi romani sacrificavano in onore del trionfatore.) Neanche nei titoli di Ordine-Tabloid mancano gli anglicismi.

In Tv, con riferimento alle sole emittenti nazionali, e con l’esclusione di Videomusic e Rete A, l’8% dei titoli delle trasmissioni sono in inglese o contengono termini inglesi; il 30% dei film in programmazione nelle sale durante gli ultimi tre mesi del 2004 sono o contengono termini americani, mentre 6 titoli su 10 delle canzonette mandate in onda dalle tv per giovani sono totalmente in inglese.

Non parliamo della pubblicità, in particolare quella tv. Su 40 messaggi di prima serata, ne ho contato almeno 3 totalmente in inglese, 10 con sottofondo di canzoni inglesi e 15 con almeno una parola in questa lingua, in particolare nella frase conclusiva, il cosiddetto payoff. Mi ha colpito in particolare la pubblicità di uno yogurt che prometteva del puro “pleasure”, come se il consumatore l’equivalente italiano “gusto” o “piacere” non l’avrebbe capito.

Ma torniamo ai giornali.

Dei tre lanci importanti effettuati ultimamente dalla Mondadori, tanto per non fare nomi, due, Vanity Fair e Flair, hanno una testata inglese. Non dovrei essere io a strapparmi le vesti. La prima testata che ho lanciato, nel ‘75 si chiamava (e si chiama ancora) Data Manager. Poi ne ho lanciato altre due con termini inglesi. Ma già tra il 1982 e l’83 avvertivo l’esigenza di un Dizionario dell’informatica inglese-italiano che ho avuto il piacere di firmare assieme ad altri due pionieri di questa materia. Molti termini oggi correnti li coniammo o li ufficializzammo in quell’occasione: così “cartella” per “file”, “chiocciola” per il simbolo @. Numerose altre nostre proposte sono cadute nel vuoto o sono state superate da proposte migliori. Ma quelli erano anche anni particolari. I giornali si riferivano al computer col termine “cervellone” e una delle più prestigiose firme del giornalismo italiano bacchettava la mania di chiamare “hardware” il pentolame e “software” la biancheria (sic!). Certamente avremmo dovuto fare come i francesi che hanno inventato il “materiel” e il “logiciel”, ma non abbiamo avuto abbastanza coraggio.

In Francia, però, questo compito se l’era assunto il governo, mentre da noi, in particolare in questi ultimi anni, imperversano le authority, i ticket, il welfare, la devolution… Sembriamo tutti orfani dell’inglese. O ci vergogniamo delle nostre radici.

Se, in un paese che non innova, il linguaggio tecnico e specialistico arriva di peso dagli Usa, non dovrebbe essere così quando si tratta di moda o di pettegolezzi femminili.

Indubbiamente gli uomini del marketing avranno avuto le loro brave ragioni, ma testate come Vanity Fair (chiedo scusa ai colleghi che ci lavorano: desidero solo fare un esempio) per il lettore sono un danno doppio. Da un lato, perché inquinano la lingua italiana; dall’altro perché imbarbariscono le conoscenze d’inglese degli italiani. Nella pubblicità televisiva fatta a questa testata, la pronuncia era un ibrido (Vànity Féar) che non potrà mai consentire all’italiano medio di capire un americano che si riferisce all’equivalente Usa pronunciando “Væn’ri Fèa:”. Nell’ascoltatore, infatti, si crea un vissuto di suoni estremamente diseducativo ai fini della comprensione dell’inglese parlato. Molti italiani conoscono bene l’inglese scritto, ma non riescono a sostenere una conversazione proprio perché c’è uno iato tra il parlato che si aspettano di sentire e quello dell’interlocutore.

Prendiamo un altro termine che incontriamo quasi quotidianamente: report (ma lo stesso vale per express, control, e così via). In Rai c’è anche un’ottima trasmissione giornalistica che si chiama Report. Bene. Quando ci si limita a scriverlo, nessun problema. Sta al lettore sapere come si legge e, se non lo sa, peggio per lui. Il problema sorge per i colleghi delle radio o della tv. Per i quali la pronuncia corrente è “réport”, senza che a nessuno venga il sospetto che magari un inglese o un americano possa leggere “r’pòrt”. E così (i)xprèss, kantròl, ecc. E ancora Sciumàkhær (che però è tedesco, ma fa lo stesso), invece dello Sciùmacher che imperversa tra i cronisti sportivi.

Quello delle sdrucciole, in effetti è una vera iattura. In quanto ad accenti sembra che l’italiano si stia lentamente magiarizzando. Le parole piane e quelle tronche non sono più di moda. Tutto va sdrucciolato sulla terzultima.

Durante la guerra del Kossovo, era difficile ascoltare qualcuno che pronunciasse Kossòvo. Tutti Kòssovo, perché suona meglio. Eppure la pronuncia sdrucciola corrisponde a quella serba e implicitamente, in bocca ad un politico o un diplomatico, vale a riconoscere il diritto dei serbi su quella regione, così come l’accento piano di Kossòvo, essendo quello albanese, equivale a sostenere le rivendicazioni autonomistiche di questo popolo. Quand’ero ragazzo parlavo anche albanese, perciò preferisco Kossòvo.

Come se non bastasse, c’è l’usura, la banalizzazione della lingua. Usate a proposito e a sproposito, le parole stanno perdendo gran parte del loro significato. I termini enfatici, come esclusivo, speciale, eccezionale, strepitoso, storico e così via esclamando, a furia di essere abusati perdono la loro forza e, se si vuole effettivamente enfatizzare, bisogna fare come quella marca di yogurt che offre puro “pleasure”, perché il piacere e il gusto non sono più sufficienti ad esprimere il concetto che si intende vendere. Per evitare di pensare che ciò valga solo per i pubblicitari, prendiamo un esempio tipico del linguaggio giornalistico.

Negli anni ‘60, due fatti avevano colpito fortemente l’opinione pubblica: la conquista della cima (o vertice) del K2 e l’incontro di due vertici della politica mondiale, i 2 K, ossia Kennedy e Krusciov. Il loro fu il primo vertice di cui ricordo avere letto sui giornali. Poi i vertici si sono via via abbassati, e oggi sulle pagine di cronaca quotidianamente si registrano vertici tra sindaco e prefetto, tra maresciallo dei carabinieri e comandante dei vigili urbani, tra capo degli accalappiacani e funzionario del canile municipale. Anche questo è un modo per fare morire una lingua.

Non si tratta di evoluzione linguistica, perché la gente non partecipa a questo processo: lo subisce soltanto.

Infine la grammatica. In edicola oggi tutto è in vendita a “soli” due, tre, quattro o cinque euro (prima erano a “sole” quattro mila lire, ecc.).

Possibile che non ci si ricordi che gli avverbi non vanno declinati? Sì, forse l’italiano non morirà. Ma se indeboliamo fortemente la lingua che è la nostra materia prima, come potremo difendere i livelli di occupazione, quando in un’Italia totalmente anglofona la percentuale delle copie di giornali e riviste fatte e stampate in Inghilterra o negli Usa supererà quella di produzione italiana? È già quanto sta succedendo con la stampa medica, un tempo fiorente, e con quella scientifica in genere. Nessun ricercatore italiano che si rispetti e scopra un’acqua un po’ meno tiepida di quelle che conosciamo si sogna di darne l’annuncio sulle riviste italiane. Tutte le nuove scoperte debbono prima essere proposte (in inglese) alle varie Nature, Science, JAMA, BMJ, e così via. Alle testate italiane resta solo l’onore di pubblicare i risultati delle ben più modeste ri-sperimentazioni cliniche ponsorizzate o caldeggiate dalle case farmaceutiche.

Chi vuole un aggiornamento di prima mano deve abbonarsi alle pubblicazioni inglesi.

Vent’anni fa non era così.

Perché questo intervento non rimanga uno sterile pianto, mi permetto di proporre all’Ordine l’istituzione di un ristretto gruppo di lavoro che segnali direttamente ai direttori e ai colleghi interessati i più macroscopici casi di abuso linguistico, suggerisca le correzioni e, magari su questo stesso giornale, con una rubrichina di pochissime righe, faccia delle proposte concrete, alternative all’inarrestabile pressione di neoanglicismi.

(Appello pubblicato da “Ordine Tabloid”, mensile dell’ordine dei giornalisti della Lombardia nel numero di marzo 2005) 

2 risposte a “LinguaMadre

  1. E’ davvero nauseante l’uso che il giornalismo fa di parole straniere, molte volte ridicolo. Ma l’ascoltatore comune accetta, distratto.

  2. Pizzetta Catarì

    E anche se l’ascoltatore comune non accetta, non vedo cosa ci possa fare…

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